“La cancel culture ci sta sfuggendo di mano?”
Il Festival di Sanremo è finito, ma le polemiche no. Questa volta nel mirino c’è Olly, il giovane vincitore della kermesse, colpevole di un freestyle del 2018, in cui usava parole discutibili dal punto di vista del politicamente corretto. Apriti cielo: il video rispunta, i social si incendiano e, come al solito, parte il linciaggio mediatico.
Non ci siamo stancati di questo eterno tribunale in cui chiunque, a prescindere dal contesto, deve essere condannato per errori di gioventù? Esiste ancora il diritto di sbagliare e imparare, o siamo condannati a essere inchiodati per sempre alle nostre vecchie parole, ai nostri vecchi errori?
Il politicamente corretto è una gabbia?
Viviamo in un’epoca in cui la perfezione morale sembra essere l’unico standard accettabile. Un tempo l’adolescenza era il periodo degli sbagli, delle parole dette a caso, delle frasi di cui ci si sarebbe pentiti anni dopo. Oggi no. Oggi ogni cosa che dici, ogni rima che improvvisi, ogni errore di valutazione può essere registrato, salvato e riproposto come prova di colpevolezza in un’aula di tribunale digitale che non ammette difese.
La domanda è: davvero vogliamo vivere in una società in cui non è più ammesso crescere e cambiare?
Perché il problema non è solo Olly. Il problema è la pretesa di purezza che sta soffocando il dibattito culturale e sociale. Siamo talmente ossessionati dall’apparire impeccabili che non ci rendiamo conto di quanto questo stesso standard sia impossibile da rispettare. Perché sì, se tutti scavassimo nel nostro passato, troveremmo qualcosa di discutibile. Siamo pronti a essere giudicati oggi per le cose che abbiamo detto o fatto a 18 anni? Se la risposta è no, perché dovremmo farlo con qualcun altro?
Tra ipocrisia e Cancel culture: Il doppio standard italiano
La società si indigna per un freestyle di un ragazzino di 18 anni, ma poi chiude un occhio sulle porcherie dette e fatte da politici, dirigenti e volti noti della televisione, gente che ha costruito carriere intere sulla discriminazione e sulla retorica dell’odio. Siamo capaci di annullare una persona per un errore adolescenziale, ma tolleriamo tranquillamente corruzione, nepotismo e discriminazioni strutturali.
Perché il tribunale del web si attiva solo con alcuni e non con altri? È davvero giustizia, o è semplicemente un passatempo per chi si sente moralmente superiore? La verità è che spesso questa smania di giustizia non è altro che un’altra forma di intrattenimento tossico, un modo per riempire i social di polemiche sterili che non cambiano nulla nella realtà.
Rivendichiamo il nostro diritto di crescere e sbagliare
Forse dovremmo tutti farci un gran mea culpa e smettere di giocare a chi è più puro e perfetto. Dobbiamo imparare a perdonare, a lasciare spazio alla crescita e alla maturazione. Dobbiamo smettere di trattare le persone come se fossero cristallizzate in un unico momento della loro vita.
Noi giovani siamo massacrati da tutte le parti. Siamo quelli che devono essere sempre perfetti, quelli che devono riparare ai danni delle generazioni precedenti, quelli che si sentono dire “voi non avete voglia di fare niente” da chi ci ha lasciato un mondo in macerie. E adesso dobbiamo pure essere crocifissi per cose dette a 18 anni?
Siamo tutti esseri umani, imperfetti per natura. E la vera rivoluzione non è nel pretendere che nessuno sbagli mai, ma nel costruire una società che sappia distinguere tra errore e malafede, tra leggerezza e pericolo, tra immaturità e tossicità. La giustizia senza empatia è solo un altro nome per la vendetta.
Basta inquisizioni digitali e torniamo ad avere buon senso
Olly è solo l’ennesimo bersaglio del meccanico politicamente corretto che ci sta sfuggendo di mano. E se non iniziamo a rivedere il nostro modo di giudicare gli altri, domani potrebbe toccare a chiunque di noi.
Forse, più che chiedere la testa di un ragazzo che ha sbagliato in un freestyle di sei anni fa, dovremmo farci una domanda più grande: siamo sicuri di essere così diversi da lui?
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