André Leon Talley: fame di bellezza

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L’idea di un uomo di colore che interpretasse qualsiasi tipo di ruolo in questo mondo sembrava impossibile”, diceva. Ed è stato lui a renderla possibile.

Gli abiti del suo guardaroba saranno esposti alla mostra Superfine: Tailoring Black Style, che verrà inaugurata al Costume Institute del Metropolitan Museum di New York con il prossimo Met Gala: la storia di André Leon Talley, tuttavia, meriterebbe una mostra a sé.

Talley: l’unico e il solo

The Only One”: così André Leon Talley fu definito dal critico del New Yorker Hilton Als, in quanto all’epoca era l’unico uomo nero che ce l’aveva fatta in un settore prevalentemente bianco, quello del giornalismo di moda. Cresciuto dalla nonna nel North Carolina, in quel sud degli Stati Uniti ancora segregazionista, André si forma ammirando gli abiti che le signore indossavano di domenica durante la messa, inconsapevolmente alimentando quella fame di bellezza che lo accompagnerà per tutta la vita. Quella moda che avrebbe poi rincorso freneticamente, tra un front row e l’altro, all’inizio sembrava quasi essere la sua condanna. Alcuni compagni di corso alla Duke University infatti, gli rendevano impossibile, o comunque spiacevole, attraversare il campus universitario per acquistare una copia di Vogue.

Ma Talley non molla, cambia università e si laurea in letteratura francese presso la prestigiosa Brown University con una tesi sull’influenza delle donne nere nelle opere di Charles Baudelaire. Da lì, la scalata: diventa assistente di Diana Vreeland al Metropolitan Museum, poi segretario tuttofare per Interview, rivista fondata da Andy Warhol. Fa il suo ingresso in Women’s Wear Daily, firma articoli da freelancer per il New York Times. Fino a ritrovarsi nella redazione di quella stessa rivista per cui correva da una parte all’altra schivando critiche e prese in giro durante gli anni in università: Vogue America. Anna Wintour lo nomina editor-at-large, e lui segna la storia come il primo uomo nero direttore creativo di una rivista.

Uno stile (ed una mente) inimitabile

Sulle sue valigie firmate Louis Vuitton c’era la sigla A.L.T., acronimo delle sue iniziali, ironicamente simile ad un’espressione di allarme. In effetti, la sua appariscente eccentricità spiazzava. Caftani kilometrici, opulenti mantelli, pellicce decorate con scintillanti spille, colori accesi e stoffe con ricami da capogiro. Il suo pioneristico approccio all’abbigliamento è stato simbolo di rottura tanto quanto il suo contributo al sistema moda.

Le sue rubriche per Vogue, che spaziavano dal cinema, alle sfilate, ad incontri con celebrità, avevano qualcosa di diverso dalle altre. Erano in contrasto con il registro solenne tramite cui la moda si raccontava per iscritto, si avvicinavano al lettore e lo guidavano all’interno di un mondo che fino ad allora faticava ad aprirsi con tanta leggerezza. Rendere la moda accessibile a tutti, però, non implica che sia di poco conto. André infatti credeva che ciò che rende la moda così importante, è la sua capacità di essere attuale. Per citare Virgil Abloh, forse Talley fu il primo a capire che la moda è un commento sociale. Trattandola come un’impresa intellettuale, ha posto le basi per le successive generazioni di fashion editor. E sedendo regolarmente in prima fila ad ogni sfilata, ha rappresentato un punto di riferimento per la comunità nera, che si vedeva per la prima volta rappresentata in un ambiente ancora ostico.

Per tutto il corso della sua “trincea di chiffon”, espressione che utilizzava per descrivere la sua vita fatta di sfilate, after party tra star e stralci di backstage, ha avuto un solo obiettivo. Quello di vivere tramite i giovani talenti che, ispirati dalla sua storia, seguono le sue orme. Così che ognuno di loro possa vivere, proprio come lui, la propria “fiaba di eccessi”.

Foto: Pinterest.