Negli ultimi mesi, il dibattito sull’estetica totalitaria nella moda si è riacceso. Il caso più recente? Kanye West, che durante la promozione del suo album “Vultures 1” ha sfoggiato un cappuccio nero che ricordava inquietantemente il Ku Klux Klan.
E come se non bastasse, la sua nuova collezione Yeezy ha fatto ancora più discutere: svastiche parzialmente cancellate stampate sui capi, un gioco visivo tra rimozione e persistenza che ha inevitabilmente scatenato polemiche globali.

Ma Kanye non è il primo né sarà l’ultimo. La moda ha sempre giocato con simboli forti, spingendosi fino al limite tra provocazione e irresponsabilità. Quando l’industria trasforma elementi carichi di significato in puro design, il rischio è che l’estetica prenda il sopravvento sulla memoria storica. E allora la domanda è inevitabile: fino a che punto si può spingere la moda nel reinterpretare il passato senza cadere nella sua glorificazione?
Dove finisce l’arte e inizia l’irresponsabilità?
Negli anni ‘70, Vivienne Westwood e Malcolm McLaren hanno usato simboli controversi nella loro linea punk per ridicolizzare il potere, per dissacrarlo e sbatterlo in faccia alla borghesia. Oggi, il contesto è completamente diverso: non c’è più l’urgenza di un messaggio politico dietro certe scelte stilistiche, solo la voglia di scioccare, di attrarre attenzione e, nella peggiore delle ipotesi, di capitalizzare sullo scandalo. La differenza tra provocazione consapevole e vuota strumentalizzazione sta tutta qui.


Un altro esempio recente? Hugo Boss, un brand che nel corso della sua storia ha già affrontato controversie legate al suo passato, ha proposto una collezione con giacche militari strutturate e colori austeri che hanno riacceso il dibattito su quanto la moda possa giocare con estetiche dal peso storico ingombrante senza cadere nell’insensibilità.

La moda deve prendersi la responsabilità?
L’arte ha sempre avuto il diritto di sfidare i tabù, ma la moda ha un enorme impatto culturale e mediatico. Il problema non è solo l’intenzione dietro certe scelte, ma il loro effetto sulla percezione collettiva. Se un tempo questi simboli venivano utilizzati per decostruire il sistema, oggi vengono riproposti senza un vero contesto critico, rischiando di normalizzare un’estetica che porta con sé una storia di dolore e oppressione.
Jonathan Anderson, direttore creativo di Loewe, ha recentemente dichiarato: “La moda è un linguaggio, e come ogni linguaggio ha il potere di costruire o distruggere. Sta a noi designer scegliere come usarlo”. Una riflessione che diventa cruciale in un’epoca in cui la comunicazione visiva è onnipresente e ogni immagine ha un peso specifico.
Moda, estetica e simboli perduti
La moda non è mai solo moda. È un linguaggio, un codice visivo che comunica idee, status, ribellione e, talvolta, ideologie che credevamo relegate alla storia. Negli ultimi anni, un fenomeno ha iniziato a serpeggiare nelle passerelle e nelle produzioni artistiche: il ritorno di un’estetica militaresca, rigida, autoritaria. Uniformi strutturate, palette cromatiche cupe, riferimenti a immaginari totalitari. Tutto questo sta tornando con una leggerezza allarmante. Ma possiamo davvero ridurre tutto a una semplice scelta stilistica, o c’è qualcosa di più profondo e inquietante?
Non siamo più davanti a una critica feroce all’establishment, ma a una patina estetica che ripropone certe iconografie senza caricarle di senso. Kanye West che lancia una maglietta con la svastica sul suo store Yeezy non sta decostruendo nulla, non sta prendendo una posizione politica. Sta semplicemente giocando con simboli di cui ignora il peso specifico, trasformando la storia in una provocazione sterile, uno shock value che dura il tempo di un trend sui social.
Il Reich della moda: un’estetica che torna?
L’industria della moda è ossessionata dal concetto di potere. L’uniforme, la divisa, il rigore estetico sono da sempre strumenti per conferire autorità a chi li indossa. Ma quando l’estetica totalitaria diventa semplicemente “chic”, senza alcuna riflessione critica, il rischio è alto: si depura il simbolo dalla sua carica storica, lo si svuota e lo si reintroduce come qualcosa di “cool”, rendendolo innocuo agli occhi delle nuove generazioni.
Certo, non è la prima volta che vediamo rimandi all’immaginario militaresco: da Hugo Boss, che vestiva letteralmente le SS, a collezioni recenti che flirtano con la severità e la rigidità delle divise, il fashion system ha sempre amato giocare con il potere che i codici visivi evocano. Ma c’è una differenza tra utilizzare il linguaggio estetico militare e rievocare un passato che ha lasciato ferite ancora aperte.
Dove stiamo andando?
Oggi, siamo in un’epoca in cui l’immaginario nazista viene ripescato senza alcuna cognizione di causa, senza un intento critico, senza la consapevolezza della sua pericolosità. Non è un caso isolato. Il titolo “Übermensch” scelto da G-Dragon per il suo album ha generato polemiche proprio per il legame con la retorica nietzschiana, strumentalizzata dal nazismo per giustificare la sua ideologia di supremazia e del super uomo. Ma se negli anni passati un’operazione del genere avrebbe scatenato scandali e sdegno unanime, oggi ci troviamo davanti a una risposta tiepida, quasi anestetizzata.


La moda può essere solo moda?
La moda ha sempre avuto il potere di anticipare i cambiamenti della società, di fiutare l’aria del tempo prima che ce ne rendiamo conto. Se oggi vediamo un ritorno di certi codici estetici, dobbiamo chiederci: perché? Siamo davvero di fronte a un semplice revival stilistico o è il sintomo di una società che, lentamente, sta normalizzando simboli che dovrebbero restare intoccabili?
Non si tratta di censura, ma di responsabilità. Se il passato diventa solo un moodboard da cui attingere senza alcuna coscienza, allora significa che non abbiamo imparato nulla. E in un’epoca in cui il confine tra estetica e ideologia è sempre più sfumato, dovremmo preoccuparci. Perché la storia ci ha già insegnato cosa succede quando si inizia a giocare con certi simboli senza sapere cosa significano davvero.
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