Che sia per passione, nostalgia o ostentazione non importa: collezionare capi vintage è ormai un fenomeno caratterizzante della pop culture. Ma se non servono più grandi archivi ricolmi di pezzi unici, cosa vuol dire collezionare moda oggi?
Nelle ultime settimane, due delle notizie più discusse nel mondo della moda, riguardano proprio il collezionismo. Un’intera collezione di sketchbook di Alexander McQueen risalenti agli anni della Central Saint Martins e poi al periodo Givenchy, è stata messa all’asta, e, solo qualche giorno dopo, la notizia della più grande asta di Margiela datata gennaio 2025, con più di 300 lotti appartenenti all’universo creativo del designer, ha fatto il giro del mondo. Ma perché collezioniamo moda?
Il collezionismo prima di internet
Il collezionismo moderno trova le sue origini nel lontano Quattrocento, quando i più ricchi nobili iniziarono a raccogliere oggetti d’arte per esibire il loro benestare. Una visione d’altri tempi, si potrebbe pensare. In realtà, oggi non siamo troppo lontani dall’idea secondo cui collezionare sia sinonimo di ostentazione. Tra i vari tipi di collezionismo, quello di moda sembra essere in cima alla lista di quelli che, pur avendo mutato forma con il passare degli anni, conservano la stessa intenzione: ottenere uno status symbol.
Nel 1968, Azzedine Alaïa acquistò l’intera couture di Cristobal Balenciaga. Il primo acquisto di una lunga serie che contribuì a costruire la sua personale collezione d’archivio di moda, con più di 15000 pezzi. Ad oggi, se volessimo citare alcuni dei collezionisti di moda più famosi faremmo nomi quali Stephanie Seymour, Alexander Fury o Cecilia Matteucci. Ma in parte, sbaglieremmo. Non basta più citare i nomi di coloro che vantano grandi archivi. Bisogna capire chi sono i nuovi collezionisti.
Basta un buon thrift find
Una volta rilegato ad ambienti esclusivi, piccole cerchie come case d’asta e musei, oggi il collezionismo di moda è diventato molto più popolare di quanto si pensi: è una vera e propria mania.
Non c’è più bisogno di avere stanze dedicate, grandi armadi o centinaia di pezzi per ottenere prestigio: basta un buon thrift find. I modaioli della generazione Z prendono d’assalto negozi di seconda mano, mercatini, archive sales, e in alcuni casi, anche gli armadi delle nonne, nella speranza di imbattersi in pezzi unici appartenenti alla moda che fu. Pezzi che rappresentino un periodo o designer specifico, rari ma intramontabili, iconici ma non troppo conosciuti. E ci riescono.
Ad oggi, indossare una Saddle bag di Dior del periodo di Galliano, o un paio di sandali Gucci della fine degli anni ’90 firmati Ford, è molto più rilevante rispetto ad avere un capo dell’ultima collezione dei rispettivi brand. Non è una questione di costi, e in molti casi, nemmeno di gusti. È l’esclusività che il capo può regalare. In un mondo che prima crea, e poi corre dietro ai cosiddetti must have, ovvero quei capi che non si possono non avere, sfoggiare una borsa vintage è simbolo di originalità, di differenziazione e autoaffermazione.
Poter rispondere “è vintage”, quando ci viene chiesto dove abbiamo comprato qualcosa, o semplicemente dichiararlo in uno dei viralissimi fit check su TikTok nei quali si elencano marchi e costi di ciò che si ha indosso, è molto più soddisfacente. È come dire che se è vero che potresti anche tu comprare e mettere il novanta percento del mio outfit, quel dieci percento rimarrà un tassello mancante.
Un tempo elitario, oggi virale. I nuovi collezionisti non vantano armadi ricolmi e pezzi da esposizione: bastano pochi capi, ma vanno indossati. E mostrati. Se indossi una Fendi Baguette dei primi anni duemila, anche se su total look fast fashion, come fai a non postarla?
Foto: Courtesy of Palais Galliera Musée de la Mode, Vogue, Gucci.