Simona Jiang e il progetto Gen2: una questione di cittadinanza

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In vista del referendum per la cittadinanza che si terrà l’8 e il 9 giugno, abbiamo parlato con Simona Jiang riguardo al suo progetto dedicato alla Gen2: figli nati e/o cresciuti in Italia da genitori stranieri.

L’8 e il 9 giugno si terrà in Italia un referendum che toccherà ben cinque quesiti abrogativi che riguardano diversi temi come il lavoro, ma sopratutto la cittadinanza.

Il referendum serve, tra le altre cose, a ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale necessario per ottenere la cittadinanza italiana, se stranieri extracomunitari maggiorenni.

In Italia sono diversi i modi in cui si può ottenere la cittadinanza. Prima di tutto per diritto di sangue: ogni figlio nato da padre o madre italiani, indipendentemente dal luogo di nascita è cittadino italiano. Anche i figli adottivi di cittadini italiani, se minorenni al momento dell’adozione, ottengono la cittadinanza italiana.

Si può poi ottenere anche per diritto di suolo: nascere in Italia non è sufficiente per ottenere la cittadinanza, ma se un bambino nasce in Italia da genitori stranieri potrà diventare cittadino italiano. Questo solo se rimane legalmente ed ininterrottamente residente nel paese fino ai 18 anni e se entro un anno dal compimento della maggiore età dichiara di voler acquisire la cittadinanza italiana. Altrimenti se nasce in Italia da genitori apolidi o ignoti, o la legge del paese di cittadinanza dei genitori non prevede la trasmissione della cittadinanza al figlio nato all’estero, la cittadinanza viene acquisita in automatico.


Un altro modo è tramite matrimonio o per naturalizzazione. Proprio riguardo a questo si terrà il referendum. Attualmente gli stranieri che risiedono legalmente in Italia possono richiedere la cittadinanza italiana solo se risiedono legalmente da 10 anni nel paese e fanno parte di paesi non appartenenti all’Unione Europea.

Ne servono solo la metà se si è cittadini di uno Stato membro dell’unione Europea, lo stesso per gli apolidi e i rifugiati.

Ne servono invece solo 3 per gli stranieri nati in Italia e per i discendenti in linea retta di cittadini italiani per nascita.

Tutto questo mondo, per chi come me, è nato in Italia da genitori italiani è una realtà che non ci riguarda così tanto da vicino. Quello che però dovrebbe farci riflettere sono le situazioni di chi in questa condizione non può incasellarsi.

Tempo fa conosco Simona sui social. La nostra conoscenza parte anni fa e nel tempo abbiamo vissuto le nostre vite parallelamente seguendo ognuna i propri percorsi e parlando di tanto in tanto, come capita a molti di noi. Simona si laurea poi in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali con una tesi dal titolo importante: “Il discorso politico e la produzione di identità alteriate delle Gen2 nell’Italia contemporanea: un caso di Cultural Studies”.

Simona Jiang (Photo by @fran_voskie)

Nel suo lavoro vengono analizzati i meccanismi con cui le identità delle Gen2 vengono costruite, percepite e ridotte a qualcosa di “estraneo”, di “altro”.

Anche Simona è parte di quella categoria che viene definita “seconda generazione”, figli nati e/o cresciuti in Italia da genitori stranieri. Questa particolarità di Simona è una cosa che io non posso vedere, non posso toccare. Quello che posso invece sentire è la sua storia, il suo percorso.

Mass

Mi chiamo Mass e fin da bambino ho percepito una costante presunzione negli sguardi degli adulti. Una delle prime domande che ricordo era se fossi stato adottato: mia madre è biologicamente mia, ma è bianca, e questo bastava a generare confusione e sospetti. Crescendo, il colore della mia pelle è stato spesso usato per etichettarmi o offendermi, come se da solo potesse raccontare tutto di me.

Non ho mai conosciuto davvero mio padre, di origini senegalesi, e non ho quindi un legame diretto con quelle radici. Eppure, non ho mai sentito di essere “l’altro”. Sono le persone che, a volte, cercano di far passare altri esseri umani come estranei a una società di cui, inevitabilmente, sono parte integrante.

La mia identità non è mai stata in crisi: ho sempre saputo chi ero. Non ho mai confuso l’anima con l’involucro. Nonostante il fastidio per chi presumeva che il mio aspetto definisse la mia appartenenza, ho sempre cercato di presentarmi per quello che sono, senza compromessi.

Al liceo, una professoressa mi disse, dopo una mia battuta sul paese: “Intanto questo paese ti ospita”. Le risposi con forza, chiedendo cosa intendesse. Oggi di questi commenti non ne incontro più e gli episodi del passato non hanno minato il mio rapporto con me stesso. Al contrario, hanno reso ancora più salda la mia consapevolezza e la mia identità.

Crescendo Simona voleva capire da dove derivasse questo sue essere “un’anomalia dell’italianità”. Perchè? Cosa la rendeva diversa? Come accadeva?

Andrea

Mi chiamo Andrea, ho 25 anni e sono nato in un piccolo paese siciliano da genitori albanesi. Il mio nome, semplice e italiano, fu scelto con cura: un gesto protettivo da parte dei miei genitori, per evitare il pregiudizio che aveva già colpito mio fratello maggiore, Arbër. Un nome, il suo, che bastò per renderlo bersaglio di scherno e diffidenza.

Ma il mondo non si ferma a un nome. Quando ero neonato, piangevo spesso, e questo bastò ai vicini per allarmarsi: chiamarono i servizi sociali, insinuando che i miei genitori, in quanto albanesi, potessero maltrattarmi. Quel sospetto infondato, alimentato dal pregiudizio, segnò profondamente la memoria della mia famiglia.

Il primo episodio in cui compresi davvero la mia alterità fu alle medie: una maestra, vedendo le mie origini, mi iscrisse a un corso di italiano pomeridiano, nonostante fossi nato in Italia e parlassi la lingua perfettamente. Da quel momento iniziai a sentire il peso di uno sguardo esterno che mi vedeva diverso, inadeguato.

Per anni ho cercato di nascondere le mie radici, silenziare la lingua e le tradizioni di casa, pur di sentirmi “come gli altri”. Ma dentro di me cresceva un vuoto. Col tempo ho imparato che la mia identità non è una contraddizione, ma una ricchezza. Oggi mi sento profondamente italiano e profondamente albanese: non in competizione, ma in armonia.

Essere “l’altro” mi ha insegnato a osservare il mondo con occhi diversi. E oggi, in quella complessità, trovo forza, dignità e consapevolezza.

Nella sua ricerca Simona ha iniziato ad esplorare questi processi, scoprendo come la percezione dell’alterità non sia mai neutra, ma bensì costruita. Non rimane confinata nel discorso e nella percezione, ma ha conseguenze concrete sulla vita quotidiana, sui diritti, sull’accesso alle opportunità. “A volte sembra quasi che la sola presenza di questi altri percepiti nel discorso politico, sia vista come una minaccia. Ma come si costruisce questa paura? Se non attraverso le narrazioni che ci circondano, quelle dei media, della politica, del discorrere generale, che parlano degli altri, senza mai dar loro voce“, spiega Simona.

Joana

Ciao, sono Joana ho 24 anni e la mia storia inizia quando mia madre scelse Napoli come città in cui vivere e nella quale crescermi. 

Napoli ha da sempre plasmato la mia identità. Il mio contesto è prevalentemente bianco. Il mio quartiere, nella mia scuola, sono ed ero l’unica ragazza nera. Dunque, ho interiorizzato pregiudizi, cattiverie, abusi, traumi che solo ora crescendo sto imparando a conviverci. 

Non è facile rendersi conto che fino ad ora sei stata “plasmata” da una società bianca occidentale, lasciandoti dietro le tue origini africane. Questa è la mia storia, costantemente giudicata e dove la mia identità viene sempre messa in discussione. Ma poi crescendo impari a tutelarti e a proteggere la tua identità. 

La prima volta che ho realizzato di essere considerata l’altra è stato nel contesto scolastico, dove ho iniziato a notare come il mio corpo veniva descritto in maniera diversa rispetto alle mie coetanee bianche. Ero molto più formosa e sviluppata e dunque già ero sotto l’occhio degli uomini. In quei momenti ho sicuramente realizzato di essere l’altra. Ricordo che in un primo momento mi ha fatto sentire speciale, non comprendevo perché attraevo maggiormente gli uomini rispetto alle mie amiche italiane ed è per questo che mi sentivo in qualche modo “speciale “. Poi ho capito… ho capito come fin da subito il mio corpo veniva sessualizzato, ero vista come “esotica” e non come una ragazza interessante da conoscere. 

Dopo l’accadimento di quegli episodi mi sono rinchiusa molto in me stessa, indossavo vestiti larghi così che non potessero guardare il mio corpo. Non riuscivo ad esprimermi completamente per paura di essere definita “troppo”. Non avevo alcun esempio, nella cultura italiana, con cui identificarmi e riconoscermi. I miei capelli erano costantemente lisci, anche perché non sapevo come gestire i miei afro. Stavo attraversando una vera e propria crisi d’identità. 

Poi a 17 anni andai a Capo Verde, il mio paese d’origine, e li finalmente potevo essere me stessa, lì ho imparato ad amare ogni parte di me. Ora avendo 24 anni, sto creando la mia identità sulla base delle esperienze che ritengo sane e non nocive. La mia identità è un ibrido di culture, di lingue, di tradizioni sia africane che italiane.

Queste sono solo alcune delle testimonianze che Simona ha raccolto in questi mesi. Mi spiega che vorrebbe che fossero la giusta spinta a informarsi sul referendum e ad agire. “ Con il mio progetto voglio creare uno spazio per le identità alterizzate, per chi non ha avuto la possibilità di autodefinirsi e autorappresentarsi. Vorrei che queste testimonianze servissero non solo a chi è statə definitə Altrə, ma anche al pubblico più ampio, soprattutto in vista della votazione per il Referendum Cittadinanza dell’8-9 giugno“.


“L’Italia è cambiata: il suo volto è più variegato, le sue radici si sono ampliate. Eppure, questa moltitudine di volti nuovi spaventa, non viene vista come una ricchezza, ma come minaccia. Lo dimostrano i continui attacchi mediatici, i continui discorsi sull’ “immigrazione fuori controllo”, o sulle ripetute riforme sulla cittadinanza negate”.

“Il diritto di esistere, di essere, di trasformare e di divenire, che negli anni sono stati continuamente negati”.

Il lavoro di Simona è importante per sensibilizzare in un doppio senso. Da un lato spingere il pubblico a riconoscere che l’Italia è già plurale, dall’altro far emergere le voci di chi è statə marginalizzatə.

Il riconoscimento non è una concessione, ma un atto di giustizia.”

Simona dà poi la possibilità di partecipare al progetto raccontando la propria storia, basta solo inviare una mail all’indirizzo elogiodelmargine@gmail.com. Se poi vi interessasse visionare il progetto esiste un link diretto: https://drive.google.com/drive/folders/14bUv1BXHba4G7E2GkWyi8fp8oeWYYMpL?usp=drive_link.

Simona per me è sempre stata Simona, come sono sicura che Joana, Mass e Andrea sono sempre stati semplicemente loro stessi agli occhi delle persone vicino a loro. Lo stesso succede per migliaia di sconosciuti intorno a noi: il signore in seconda fila, il ragazzo in coda alle poste o la donna sulle strisce pedonali. Solo persone. Facciamo in modo che anche lo Stato possa vedere in queste persone qualunque non stranieri, ma cittadini.