Siamo cresciuti credendo che il progresso tecnologico fosse la risposta. Oggi ci chiediamo se fosse la domanda sbagliata
Ci avevano promesso che il progresso tecnologico ci avrebbe salvato. Che avrebbe reso tutto più facile, più veloce, più comodo. E in parte è stato così. Oggi possiamo parlare con chiunque, ovunque. Possiamo imparare qualsiasi cosa con un click, lavorare da casa, ordinare cibo, vedere film, conoscere persone nuove… tutto dallo stesso schermo. Ma a un certo punto qualcosa è cambiato. Senza che ce ne accorgessimo, quello che doveva aiutarci ha iniziato a prenderci per mano… e poi a trascinarci.

I social network, per esempio. All’inizio sembravano una figata: un modo per sentirsi connessi, per condividere momenti, per esprimersi. Ma oggi? Ognuno cerca approvazione a colpi di like. Ci confrontiamo continuamente con vite perfette, corpi plastici, felicità esibita. È difficile non sentirsi “sbagliati” quando il tuo feed ti dice ogni giorno che dovresti essere più bello, più magro, più ricco, più felice. La verità è che i social sono diventati un palcoscenico dove fingiamo di vivere, mentre la vita vera ci passa davanti.
Oppure prendiamo l’intelligenza artificiale. Straordinaria, certo. Riesce a fare cose impensabili: scrive, disegna, parla, traduce, risolve problemi. Ma mentre ci stupiamo delle sue capacità, non ci accorgiamo che ci sta sostituendo. Sempre più lavori vengono automatizzati. Sempre meno spazio per la creatività umana. A scuola, molti non scrivono più un tema: lo fanno fare a un’IA. A cosa serve imparare, allora? Cosa succede quando anche il pensiero viene delegato?

Il progresso ha accelerato tutto. Ma forse ha accelerato troppo. Viviamo in un mondo dove se una pagina non si carica in due secondi, ci innervosiamo. Dove il tempo libero è diventato tempo da riempire. Dove non ci fermiamo mai. E quando ci fermiamo, ci annoiamo. Perché il cervello è abituato a essere bombardato. Notifiche, video brevi, stimoli continui. Ma così perdiamo la capacità di concentrarci, di pensare a lungo, di stare nel silenzio. Di essere presenti.
E la cosa assurda è che il progresso tecnologico non è evoluto per farci del male. Anzi, per migliorarci la vita. Ma non abbiamo messo limiti. Non ci siamo mai chiesti: fino a che punto è utile? Abbiamo lasciato che diventasse tutto normale. Che fosse normale vivere metà della vita in un mondo digitale.
E poi c’è una cosa che mi fa davvero paura. Ed è vedere come, davanti a qualsiasi cosa – anche la più tragica, la più intima, la più umana – la prima reazione di molti sia: “Lo devo postare”. Non più “lo sto vivendo”, non più “posso fare qualcosa”. No. Solo: “Devo mostrarlo”.
Succede un incidente per strada? Si tira fuori il telefono. Una persona sta male? Si fa un video. Una cosa drammatica, vera, forte? Si pubblica, si racconta, si mette online. Anche il dolore è diventato contenuto.

Non c’è più il passaggio in cui uno si chiede: “Ma è giusto? Serve davvero che lo vedano tutti?”. È saltata la privacy. È saltata la libertà di tenere qualcosa solo per sé. Ora tutto è condivisibile. Tutto è pubblico. Tutto è uno status, una storia. E non ci si ferma nemmeno davanti alla morte. Gente che si scatta un selfie davanti a un feretro solo per dire: “Io c’ero”. Che posta la foto accanto a un simbolo sacro, o accanto al dolore di qualcun altro, per guadagnare un po’ di visibilità.
E intanto siamo lì. Sempre lì. Col telefono in mano. Sempre. A tavola con gli amici, in macchina, perfino a letto. Non ce ne accorgiamo nemmeno più. Non è solo abitudine: è come se fosse diventato parte del nostro corpo. Una nuova pelle. E più passa il tempo, più ci dimentichiamo com’era il mondo senza. E peggio: ci dimentichiamo chi siamo noi senza.
Quindi sì, il futuro sarà anche digitale. Ma siamo ancora in tempo per decidere che non tutto va vissuto online. Che si può scegliere di non postare. Che si può vivere un momento e basta. Senza filtri, senza selfie, senza testimoni digitali.
Perché alla fine, ciò che davvero ci resta… non è quello che pubblichiamo. Ma quello che sentiamo.
Foto: Pinterest