Il labirinto a Milano dentro l’anima di Arnaldo Pomodoro
Non è un museo. Non è un’esposizione. Non è nemmeno un semplice spazio d’arte. È un ventre. Un ventre scavato nella città, un corridoio uterino sotto il rumore ubriaco di Milano, dove il tempo e lo spazio si confondono come due amanti che non si separano più. Lo chiamano Labirinto, ma non è fatto per perdersi. È fatto per ritrovarsi.

Palazzo Fendi nasconde un tesoro
Giovedì 20 marzo ha riaperto dopo un anno di silenzio e ristrutturazione, il Labirinto di Arnaldo Pomodoro, un’opera che non ha niente del narcisismo luccicante delle gallerie patinate, ma tutto dell’urlo sommesso di chi ha scavato nella propria anima per lasciare tracce. Sotto via Solari, in Porta Genova, sotto i piedi dei passanti ignari, sotto le vetrine di Fendi, si nasconde un universo — e chiamarlo “sotterraneo” è già riduttivo, perché è uno spazio verticale, anche se va in orizzontale: verticale nell’anima.



Il labirinto dell’anima
Pomodoro, lo scultore che ha trafitto il bronzo con la grazia violenta dei profeti, ha costruito qui la sua camera segreta. Un luogo che respira l’epopea di Gilgamesh, l’eroe che cercava l’immortalità e trovava solo verità. Un luogo fatto di fibra di vetro, duro come la memoria e fragile come l’illusione. Qui Pomodoro ha portato le sue ossessioni: le sue forme perfette, ma rotte; le sue architetture impossibili, ma vere; le sue ferite scolpite nel metallo, che sembrano dire: “Guarda. Questo sono io.”
Cammini tra opere finite e altre incompiute, tra scenografie polverose e simboli antichi, e hai la sensazione che ogni passo sia una pagina letta al contrario. Non c’è inizio, non c’è fine. C’è solo quel percorso di 170 metri quadri che non si limita a mostrarti l’arte, ma ti mette in discussione. Ti spoglia. Ti domanda: “Dove sei tu, in tutto questo?” E mentre cerchi di rispondere, ti accorgi che non stai più guardando Pomodoro. Sei Pomodoro. Perché il labirinto sei tu.

Un’idea
L’idea nasce nel 2005, quando Pomodoro si innamora di questo spazio e lo sceglie come sede della sua fondazione. Lui, che ha sempre inseguito l’invisibile, decide che il cuore pulsante del suo mondo non sarà in superficie, ma sotto terra. Dove non si vede. Dove si sente. E da subito quel sotterraneo non è più solo un archivio, ma un laboratorio del pensiero. Una stanza del tempo, dove — come scrisse lui stesso — “il tempo è trasformato in spazio e lo spazio a sua volta diventa tempo.” Una frase che non è solo una teoria: è un colpo al petto. È una sveglia.
E allora capisci perché lo ha chiamato Labirinto. Non per confondere, ma per rivelare. Perché il labirinto non è un trucco architettonico. È un test esistenziale. È il luogo in cui si entra per smettere di fingere e iniziare a cercare. Qualcosa. Qualunque cosa. Anche solo un’eco.


Il Labirinto di Arnaldo Pomodoro è visitabile solo su prenotazione, come le cose preziose, come le reliquie, come le tombe. Ma soprattutto come le verità. E in un mondo dove tutti corrono per farsi vedere, lui ti invita a scendere per guardarti dentro.
E in fondo, non è forse questo l’atto più rivoluzionario?
Photocredits: Press kit Fondazione Arnaldo Pomodoro, Collater.al Studio