C’è una parola che sembra aver colonizzato il nostro modo di percepire il mondo: vibes. La ricerca delle good vibes – quelle “buone vibrazioni” che evocano sensazioni positive – guida le nostre scelte quotidiane, dalle esperienze alle relazioni.
La parola vibes è ovunque: nei social media, nelle conversazioni, persino su t-shirt e borse di tela. Ma come siamo arrivati a dipendere così tanto da queste sfuggenti vibrazioni emotive? E qual è il prezzo che paghiamo quando inseguiamo ostinatamente solo ciò che ci fa stare bene?
Dalle good vibrations alle good vibes
Il termine vibes deriva dall’inglese vibrations, richiamando l’idea di energie percepibili nell’ambiente e tra le persone. Il concetto di good vibrations esplose negli anni ’60 con i Beach Boys e la loro celebre canzone “Good Vibrations”, ispirata proprio all’idea di captare energie positive attorno a noi
L’idea che il nostro istinto possa percepire vibrazioni emotive è rimasta radicata nella cultura pop, evolvendosi nel termine moderno vibes per indicare quelle sensazioni a pelle che qualcosa o qualcuno ci trasmette.
Oggi diciamo spesso farsi come “che vibe ha questo posto?” oppure “mi trasmette buone vibes” per descrivere il mood, l’atmosfera di un luogo, di un evento o persino di una persona. Dire good vibes significa cercare o inviare sensazioni positive, enfatizzando come un’esperienza ci faccia sentire bene. In un mondo saturo di stimoli, affidarsi alle vibes è un modo rapido per orientarsi: ciò che “dà una buona vibe” attrae, mentre ciò che “dà una vibe strana” viene evitato. Ma cosa succede quando questo metro di giudizio diventa l’unico criterio che utilizziamo?
L’imperativo della positività
Good vibes only. Questo motto – “solo vibrazioni positive” – è diventato un mantra contemporaneo. Sui social network abbondano hashtag come #staypositive, #solocosebelle, #goodvibesonly. A prima vista nulla di male: coltivare ottimismo e gratitudine ha indubbi benefici. Ma quando la ricerca della positività diventa un’ossessione, emergono effetti collaterali indesiderati.
Gli psicologi parlano di positività tossica per descrivere quell’ottimismo forzato che spinge a rifiutare qualsiasi emozione negativa. Con questo termine si intende un atteggiamento eccessivamente positivo che non permette di riconoscere le emozioni “non positive”, nella convinzione che ignorare le emozioni difficili ci renderà più felici
La cultura del good vibes only di fatto induce a sopprimere sentimenti come tristezza, paura, rabbia o frustrazione, considerandoli indesiderabili o addirittura sbagliati. Il problema è che questa tirannia della felicità ignora una parte fondamentale dell’esperienza umana: la vulnerabilità. Rinnegare le emozioni “negative” non le fa scomparire – anzi, alla lunga può portare a conseguenze peggiori per il nostro benessere
L’illusione della felicità immediata
La nostra società è dipendente dalla gratificazione istantanea. Vogliamo esperienze che ci facciano stare bene subito, evitando tutto ciò che richiede tempo o impegno. Ecco perché ci aggrappiamo alle vibes: se qualcosa non vibra immediatamente nel modo giusto, passiamo oltre. Non c’è spazio per il dubbio, la complessità, l’elaborazione lenta di situazioni che potrebbero rivelarsi significative col tempo.
Questo fenomeno si riflette anche nelle relazioni. Se una conversazione perde ritmo o un appuntamento non ha la “giusta vibe”, finiamo per scartare tutto. L’algoritmo sociale ormai funziona come uno swipe: se non ci convince subito, lo lasciamo andare. Il risultato? Legami più deboli e relazioni spesso superficiali, quasi usa e getta, alla perenne ricerca di una perfezione emotiva che in realtà non esiste
Basti pensare al ghosting, la sparizione improvvisa e senza spiegazioni ormai diffusa nelle frequentazioni. Un modo rapido per tagliare corto non appena l’altro non ci “dà più la vibe giusta”, evitando qualsiasi confronto. In questo modo, però, ci priviamo della possibilità di costruire rapporti autentici e resistenti alle inevitabili fasi negative.
Siamo diventati schiavi delle vibes?
Inseguire solo ciò che è piacevole ci impedisce di affrontare l’intera gamma delle emozioni umane. La realtà è fatta di alti e bassi, di momenti entusiasmanti e periodi di crisi, di giornate che scorrono leggere e altre che pesano sul cuore. Ignorare questa realtà non ci rende più felici, ma più fragili – cercare di sopprimere le emozioni “cattive” spesso finisce per intensificarle, mentre accettarle ci aiuta a stare meglio.
Forse dovremmo chiederci: stiamo scegliendo esperienze, relazioni e percorsi di vita basandoci unicamente su una sensazione passeggera? La paura di affrontare il disagio ci sta privando della possibilità di crescere, di approfondire, di scoprire qualcosa di autentico. Se tutto si riduce a “questa cosa mi dà una buona vibe oppure no”, allora forse stiamo semplificando e filtrando eccessivamente una realtà che meriterebbe più spazio e più tempo per essere vissuta davvero.
La felicità non è qualcosa che possiamo ottenere magicamente ripetendo frasi ottimistiche. È fatta di esperienze vere – di tentativi, di fallimenti, di vulnerabilità e anche di attimi di pura bellezza inaspettata. Le vibes in sé non sono il problema; il problema è pensare che ogni momento della vita debba per forza essere una good vibe only. Forse la sfida più grande è proprio smettere di cercare solo la leggerezza a tutti i costi, e ricominciare ad accettare che a volte la profondità e l’autenticità valgono molto di più.