Bambini: il prezzo insostenibile del fast fashion

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Una denuncia contro lo sfruttamento di bambini in India

C’era un tempo in cui la stoffa si tesseva come si intesseva la vita: con lentezza, pazienza, e rispetto. Oggi, quel tempo sembra appartenere ai miti, cancellato dalla voracità di un mercato alla costante ricerca del prezzo più basso possibile. E mentre il mondo si illude che la modernità sia sinonimo di progresso, c’è una verità che pulsa, cruda e inaccettabile, tra i corridoi delle fabbriche indiane.

Qui, il futuro viene cucito sulle spalle dei bambini, piccoli, inconsapevoli schiavi del capitalismo globale.
In città come Tirupur, Jaipur o Delhi, il ruggito delle macchine per cucire copre a malapena i sospiri di giovanissime mani che lavorano in condizioni inumane. H&M, Gap, Amazon, Inditex: dietro i loro slogan accattivanti e le vetrine allestite ad opera d’arte, si cela una rete di subappalti che affida la produzione alle ombre. Ombre di volti infantili, occhi stanchi e corpi piegati. Per ogni maglietta a 4,99 euro, c’è un bambino che lavora 12 ore al giorno, spesso senza pause, senza tutele, senza sogni.

Un dramma contemporaneo

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, sono oltre 10 milioni i minori impiegati nel lavoro forzato in India, e una buona parte di loro è coinvolta nella filiera tessile. Un dato che non compare nei report annuali delle multinazionali del fast fashion, ma che da anni, è una grande red flag nascosta tra le pieghe delle loro statistiche. A Mumbai, i banchi di scuola sono stati sostituiti dai telai; a Kanpur, le matite lasciano spazio agli aghi. Perché? Perché la domanda globale esige tempi di produzione sempre più rapidi e costi sempre più bassi.

H&M, che si presenta come un campione della sostenibilità, è stata accusata più volte di collaborare con fornitori che sfruttano manodopera minorile.

Gap, con la sua immagine pulita e familiare, ha alle spalle uno scandalo in cui ragazzini di appena dieci anni erano costretti a lavorare a ritmi disumani per cucire abiti destinati ai mercati occidentali.

Inditex, il colosso del tessile che possiede Zara, ha dichiarato guerra alle pratiche non etiche, ma resta invischiato in un sistema opaco che non riesce a garantire trasparenza.

E non possiamo dimenticare Amazon, il gigante dell’e-commerce. Il quale pur non essendo direttamente legato alla produzione, alimenta la catena infinita dello sfruttamento attraverso fornitori poco controllati.

La complicità dell’Occidente

E noi, consumatori occidentali, siamo complici (più o meno consapevoli) di questa barbarie. Perché acquistiamo senza domandarci chi paga il vero prezzo di quel vestito scintillante? Perché chiudiamo gli occhi di fronte a documentari e reportage che ci mostrano la realtà delle fabbriche tessili? Forse perché la verità fa male, o forse perché abbiamo imparato a vivere nella menzogna.

R di rivoluzione

Non bastano più le denunce, le petizioni, le campagne pubblicitarie. È necessario un cambiamento radicale, una rivoluzione morale che imponga un nuovo paradigma economico. Il fast fashion non può continuare a esistere nella sua forma attuale. Alimentato dal sangue e dalle lacrime di chi, purtroppo si trova castrato da un sistema malato. Le grandi aziende devono rispondere a questa domanda: quante infanzie devono essere sacrificate per produrre un profitto? Quanti sogni di bambini dovranno spegnersi ancora?

E noi, popoli del cosiddetto Primo Mondo, dobbiamo smettere di essere semplici e silenziosi spettatori di questo scempio. Non possiamo continuare a indossare gli abiti e ad alimentare questo circolo di sfruttamento. Perché ogni capo di abbigliamento comprato senza consapevolezza è la tomba dell’innocenza.

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