Pochi giorni fa è uscito sul Corriere della Sera un articolo di inchiesta dal titolo “Shein, il lato oscuro del re del fast fashion: lavoratori schiavi, tessuti tossici e inquinamento”. Ma cosa ci interessa davvero?
“Inchiesta Shein, il lato oscuro del re del fast fashion”
Il pezzo in questione è curato dalle giornaliste Marta Camilla Foglia e Milena Gabanelli e scelto per la rubrica, Dataroom, di quest’ultima. Qui non viene fatto altro che riprendere, prima all’interno di un video (come da format) e poi per iscritto, l’inchiesta dello scorso autunno dalla giornalista e reporter anglo–algerina Imam Amrani – la quale era riuscita ad entrare con una telecamera nascosta in due delle 700 fabbriche di Shein, nella provincia cinese dello Guangzhou, documentando il tutto per la piattaforma a pagamento di Channel4.
Ma fatto il punto sul caso Shein, e sull’impatto ambientale dell’industria del fast-fashion più in generale, cosa emerge? Innanzitutto che i lavoratori impiegati dell’azienda cinese sono sottoposti allo schiavismo vero e proprio: costretti a turni di lavoro che possono arrivare fino a diciassette ore consecutive, in condizioni disumane. Ogni giorno devono produrre 500 capi. E ognuno di questi, che per pochi euro può essere nostro in poco più di una settimana, vale solo 4 centesimi nella loro busta paga.
Passiamo poi ai materiali e ai costi ambientali. Saprete bene che per produrre una semplice maglietta di cotone sono necessari in media 2700 litri di acqua. Questo perché il cotone, prima di essere una fibra tessile, è una pianta (del genere Gossypium, ossia Malvacee, ndr.). Ci sono poi i vari step di produzione: sgusciamento, tintura, filatura, rifinitura. E ognuna di queste fasi ha bisogno di ulteriore acqua.
E non suona strano sentire che processi di produzione intensivi, come quelli del fast-fashion appunto, richiedano l’utilizzo di fertilizzanti chimici e diserbanti altamente tossici. Stesso discorso vale per i coloranti azoici, poco costosi, e utilizzati per la resa brillante del colore.
Quindi cosa abbiamo, per pochi euro, acquistando un capo (spesso sintetico) di Fast-Fashion: bassi costi di spedizione, una buona dose di senso di colpa e una buona possibilità di sviluppare in una manciata di anni un cancro della pelle. E non parliamo neanche di cosa il nostro shopping sfrenato a basso costo comporti per l’ambiente.
L’inchiesta di Milena Gabanelli
L’articolo in questione è stato subito ribattezzato da numerose testate come “l’inchiesta di Milena Gabanelli su Shein”. Ma l’influenza della ex-Report all’interno del panorama giornalistico italiano fa solo sì che la notizia arrivi anche ad un target di persone ancora ignaro. Quale sia questo target, poi, me lo direte voi.
Perché tutto questo, chi compra da Shein o simil, lo sa già. E consapevolmente sceglie di continuare ad effettuare i propri acquisti sulla piattaforma di Shopping cinese.
Uno dei dati riportati, riguardo il re del fast fashion che ad oggi fattura “più di Adidas, H&M e Burberry messi insieme”, su Corriere è: “La sua app, nel maggio 2022, era la più scaricata negli Stati Uniti, con 27 milioni di download”. Ma sbaglio o parliamo dello stesso posto il cui il cibo tipico è il Fast Food?
A questo punto sarebbe quindi interessante se qualcuno facesse piuttosto un’inchiesta sul perché questo accade. O su dove, nella nostra penisola, vengono effettuati più ordini. Perché anche questo sarebbe indicativo.
Come avanza anche la Gabanelli alla fine del video pubblicato su corriere, dopo aver individuato la Gen Z (“Proprio così, la generazione più sensibile ai temi legati alla sostenibilità ambientale e ai diritti dei lavoratori è anche la maggiore cliente di questo marchio che di trasparente non ha nulla”, cito ndr.) come cliente abituale dell’azienda – e del fast fashion più in generale -, ci sono altri modi per vestire (anche alla moda) spendendo poco. Favorendo la moda circolare e sostenibile: per esempio acquistando nei mercati, dell’usato e non.
Perché la Gen Z ama il fast fashion?
Ma quello che vogliamo chiederci oggi invece è: perché, sapendo dello sfruttamento dei lavoratori e dei materiali potenzialmente tossici, le persone (e in particolare i giovanissimi) continuano a vestire Fast Fashion? Semplicemente perché a venti’anni, a meno che tu non sia un figlio di papà o un influencer a cui i brand fanno a gara a chi manda più regali, i conti in tasca te li devi fare con quello che hai.
Mettiamo il caso dello studente fuorisede che vive e studia a Milano. In una città che offre nella più economiche delle ipotesi un’ampia stanza 3in1 (ovvero che vede nello stesso ambiente divano-letto, piano cottura e doccia) per 700euro – condominio e bollette escluse – un ventenne dove dovrebbe fare shopping? In Via Montenapoleone, dove vendono il Made in Italy? Per non parlare dei contratti a tempo determinato (e sottopagati) ad oltranza a cui spesso la nostra generazione è sottoposta.
Svegliamoci. Perché se così tante persone sono consapevoli che dall’altra parte del mondo c’è chi vive l’inferno per produrre una maglietta che noi passiamo pagare 3euro – tra l’altro potenzialmente tossica, nonché altamente inquinante – e “ignorano” la cosa, è grave. Ma non si è neanche nella posizione di potergli puntare il dito contro. Perché? Perché gli stessi che giudicano con mille lire compravano il pane. Oggi non varrebbero niente. E, per la cronaca, facendosi un giro nei mercati tra i banchi di abbigliamento, si scopre come siano anche gli stessi commercianti a rivendere (soprattutto) il fast fashion. Shein incluso.
Crediti: tutte le immagini sono estrapolate dall’articolo Shein, il lato oscuro del re del fast fashion: lavoratori schiavi, tessuti tossici e inquinamento di Marta Camilla Foglia e Milena Gabanelli per Corriere della Sera.