Perché condividiamo le emozioni negative sui social?

da | CULTURE

Alla genz piace condividere tutto sui social, soprattutto le emozioni negative e gli stati d’animo drammatici. Qual è il motivo? Ci ha risposto il Dottor Matteo Merigo

Fino a qualche tempo fa i social erano uno spazio in cui condividere tutto ciò che di bello accadeva nella vita; e, anzi, se non accadeva nulla, dovevamo dimostrare in qualche modo che la nostra vita fosse perfetta, che non ci fosse nulla che andasse male, e le storie o i post di IG erano lo spazio perfetto per ostentare. 

Ultimamente però le cose sono cambiate. La Gen Z, ma in gran parte anche Millennials e gli Alpha – anche se un po’ meno, forse perché appena entrati nel mondo del web- tendono ad utilizzare i social media per condividere emozioni negative, represse o il vissuto di situazioni spiacevoli. 

Ma perché siamo più propensi a diffondere le emozioni e i sentimenti negativi rispetto a quelli positivi?  

Abbiamo fatto due chiacchiere con il Dottor Matteo Merigo, psicologo, psicoterapista e sessuologo che ci ha spiegato le motivazioni di questi comportamenti

Innanzitutto ha introdotto il discorso spiegandoci che in generale siamo portati a diffondere e condividere tutto ciò che viviamo sui social perché questi sono strumenti che conosciamo molto meglio e di cui abbiamo, almeno in teoria, una certa padronanza, rispetto alle generazioni precedenti. 

Questa condivisione è il mezzo che ci permette di ricevere i consensi che cerchiamo. Quando ci esponiamo e ci apriamo lo facciamo perché vogliamo ricevere in cambio delle approvazioni: «Il fatto di utilizzare i social, in molti casi, è per avere sostegno, per ricevere consigli e per sentirsi dire “Anche io ho provato questa cosa”, “Anche a me è successo”» ci spiega Merigo. Invece, «parlare dei propri sentimenti con qualcuno che ci conosce, ha l’utilità che già possono entrare in contatto diretto con la mia persona e con la mia figura, e quindi possono conoscere tanti altri aspetti riguardanti me». 

Abbiamo chiesto al Dottor Merigo se secondo lui c’è una generazione tra la Z, l’Alpha e i Millenials, che si apre di più rispetto alle altre sui social: «I Millennials lo fanno in maniera più importante; invece, credo che l’Alpha sia quella generazione che ad un certo punto comincerà a dire “Anche meno social”. È uscito un report che riposta come 7 ragazzi su 10 della Gen Alpha quando guardano contenuti sulla violenza sui social, temono di andare in giro. Vedendo questi aspetti il pensiero è “Il mondo social è così, perché ci sta mostrando la realtà”; quindi arrivare a questo tipo di trasformazione della realtà diversa dal social comincerà già l’alpha a pensarlo e poi la successiva Beta”.

La Gen Z è inclusiva e anche per questo motivo cerca aggregazione e comunità

Infatti, lo vediamo, dice il Dottore, quando i giovani scrivono che andare dallo psicologo sia utile perché “da una mano ad aprirsi”, inoltre chiedono agli utenti “Voi cosa ne pensate?”. 

In questo modo si lascia sempre spazio agli altri di dare il loro pensiero; ovviamente ci saranno sempre commenti contrastanti, chi è a favore e chi invece è contro. 

Parlare sui social e aprirsi può sembrare facile, spesso pensiamo «tanto se sono sincero non mi giudicheranno»: è proprio qui l’errore. Quando uno decide di esprimere la propria opinione e diffonderla sul web deve essere pronto anche alle critiche, perché, si sa, dietro uno schermo è facile criticare.

Viene in mente il caso della ragazza che, poco fa, è morta facendo un l’intervento chirurgico di estetica; qualche tempo dopo hanno intervistato una giornalista che ha dichiarato di essere stata anche lei nella stessa clinica e di aver subito trattamenti “ambigui”. Dopo averlo raccontato, i commenti che le sono arrivati non sono stati di appoggio, ma anzi di denigrazione, del tipo “Hai aspettato la morte di qualcuno per dire che in quell’ambulatorio ti sei sentita male”. «Tutte cose che poi possono diventare dei boomerang» aggiunge lo psicologo

Ecco perché bisogna fare attenzione a ricercare audience attraverso il dolore; ciò che ci torna indietro non è un aumento della visibilità; nel tentativo di affievolire il dolore potremo venire travolti della sofferenza. 

Ma quindi per quale motivo siamo più propensi a raccontare drammi e sventure sui social?

Merigo si lega al concetto della pornografia del dolore. 

«È un po’ come il concetto della “pornografia del dolore”, cioè le cose che fanno male, il disagio e la sofferenza che vengono vissute sono più facili da trasmettere sui social, perché in quel momento sappiamo che il pubblico si allarga, e allargandosi il pubblico arrivano anche i consensi». Se ci pensate, alla fine, i contenuti sui social si dividono in due: video estremamente divertenti oppure persone che parlano del proprio dolore. Sono queste le cose che fanno più presa sulle persone.

Il Dottore prende l’esempio di Lady Diana. «Tenendo conto che una delle informazioni che ha bloccato letteralmente l’informazione nel mondo, oggi forse in maniera minore, ma se ne e parlato per anni, è stata la morte di Lady Diana. L’impatto mediatico è stato molto forte perché conteneva sesso-sangue-soldi-scandalo. Sono queste le situazioni che colpiscono, piuttosto che: “È stata scoperta una molecola che può combattere un determinato tipo di tumore”. Purtroppo queste ultime vanno nel dimenticatoio, mentre la parte di scandalo e di dolore tende ad rimanere viva».

Continua Merigo «È un po’ come quando cerchi un ristornate su Tripadvisor. Se c’è scritto 4 stelle, guardi e vedi che ci sono cinque utenti che votano 5 stelle e una sola che vota 1 stella, la prima cosa che facciamo è andare a vedere questa negativa, andare a leggere il perché. Le situazione negative sono quelle che balzano all’occhio, che ci catturano l’attenzione perché ci mettono in allerta. 

Quel dolore diventa talmente forte che non riusciamo a distogliere l’occhio, e poi diventa esteso, come se in realtà ci piacesse guardare le situazione dolorose.

Questa pornografia del dolore sta virando oggi verso il tema della sensibilità 

«Ci sono, al giorno d’oggi, tanti cantanti, attori, sportivi e personaggi famosi che hanno portato il concetto del dolore come un fatto privato-pubblico, cioè la trasformazione del privato in pubblico». Merigo nomina il motociclista e youtuber mancato da poco, Luca Salvatori, il quale aveva dedicato un molto spazio agli aspetti legati alla sua psiche ed ai suoi attacchi di panico.

Ognuno è diverso, c’è chi preferisce condividere le proprie emozioni con chi gli sta attorno e con coloro con cui passa le giornate, mentre altri si sentono più a loro agio ad aprirsi online, con estranei, che mano a mano, diventano sempre meno sconosciuti. Perché tutto il mondo è paese, tutti viviamo le stesse cose, in maniera diversa, ma uguale. 

La libertà di poterci esprimere dove vogliamo è un nostro diritto.