Fontanesi il ruba tempo: l’arte che lacera e ricuce il mondo

da | LIFESTYLE

Al mondo esiste l’arte, e poi, l’arte che non chiede il permesso, che non aspetta -e non ne ha bisogno di certo-  la tua approvazione. Un’arte che si insinua nei meandri più intimi della quotidianità, prendendo il banale per trasformarlo in epifania.

Di cosa stiamo parlando? 

Dell’arte di Fontanesi, una creatura anonima che, figlia del mondo digitale, scivola tra i profili Instagram come un’ombra sfuggente, ricordandoci che non tutto può essere incasellato in una categoria o un hashtag. 

Lui, o lei, ha deciso di rubare un nome che sa di passato, un nome che appartiene a un pittore dimenticato del XIX secolo. Ma non c’è nulla di nostalgico in Fontanesi. C’è invece il cortocircuito, il pugno nello stomaco che ti lascia senza fiato.

Attivo dal 2012, Fontanesi ha trasformato i social media — Instagram, in particolare — in un laboratorio d’avanguardia. Non si tratta di un semplice archivio d’immagini, bensì di un palcoscenico dove due frammenti del mondo, apparentemente scollegati, si incontrano e dialogano. È come se prendesse due mondi lontani — un cane che corre su un prato e il frammento di un muro sbrecciato — e li unisse in un’unica storia. 

Nessuna didascalia, nessun indizio, solo un invito: guardare.

Il layout delle storie, l’arte del disordine

Fontanesi si appropria del caos di Instagram e lo rende sistema. Il layout delle “stories”, quella griglia nata per catturare momenti fugaci, diventa il terreno fertile per un’estetica che flirta con il neorealismo, con la pittura fiamminga, e persino con l’irriverenza di Munari. 

Ogni immagine è un frammento; ogni frammento è una domanda. E, in fondo, non è questo il compito dell’arte? Metterci davanti ad enormi punti interrogativi, spogliarci della nostra certezza che il mondo sia fatto di ordine e bellezza? Perché il mondo di Fontanesi non è bello. È grottesco, è ironico, è romantico e, a volte, perturbante.

Ciò che colpisce, in questa “pratica fontanesiana”, è la capacità di smascherare il vuoto sotto il patinato. Nei suoi collage visivi, l’estetica della spontaneità digitale — selfie, scorci di città, animali, texture urbane — viene riassemblata in composizioni che non vogliono mai consolarti. 

Non ci sono sorrisi, non ci sono idilli. Ci sono, invece, lampi di verità: l’erba che cresce tra le crepe di un muro; il riflesso distorto di un volto nell’acqua sporca; il cielo grigio che incombe sopra un edificio in rovina.

Un’estetica che non si piega alle regole

Alcuni critici vedono in Fontanesi un ritorno al neorealismo: l’arte del quotidiano, del brutto che si fa sublime. Altri evocano la pittura fiamminga, con la sua ossessione per il dettaglio e per la luce che trasforma anche l’oggetto più umile in qualcosa di eterno. 

Ma non è qui che sta il vero fascino di Fontanesi. Il suo genio, semmai, sta nella libertà con cui maneggia questi riferimenti, nel modo in cui trasforma la banalità in narrazione.

Fontanesi, come un Munari digitale, gioca con il nostro sguardo e con il nostro immaginario. Le sue immagini sono un enigma che non offre soluzione. C’è chi ci vede ironia, chi romanticismo, chi un filo di malinconia. Ma non importa ciò che vedi: importa ciò che senti. 

E ciò che senti è un misto di inquietudine e meraviglia, come se stessi spiando qualcosa di troppo intimo per essere condiviso.

L’arte che ci meritiamo

In un mondo ossessionato dalla perfezione, Fontanesi ci offre l’imperfezione. In un’epoca in cui ogni immagine è filtrata, corretta, ripulita, lui ci regala il disordine, il non detto, l’incontro fortuito tra due realtà che, nella loro collisione, riescono a raccontare qualcosa di vero. 

Non è un’arte per tutti. Non è un’arte che consola. Ma è un’arte che serve.

Perché?

Perché ci ricorda che il mondo, come la vita, non può essere sempre bello. E questo, forse, è il più grande atto di sincerità.

E così, Fontanesi ci lascia con un sorriso amaro. Non sappiamo chi sia, né dove voglia arrivare. Ma una cosa è certa: in un’epoca di immagini vuote, il suo, è un messaggio che pesa. Pesa come un macigno!

Photocredits: Pinterest