Tutti sappiamo cos’è il razzismo e quasi tutti sappiamo che è sbagliato. Ma la piscologia che cosa ne pensa a riguardo?
Se cercassimo sul dizionario la definizione di “razzismo”, ci uscirebbe questo: Ogni tendenza, psicologica o politica che fondandosi sulla presunta superiorità di una razza sulle altre o su di un’altra, favorisca o determini discriminazioni sociali. Sappiamo tutti cos’è il razzismo, ma da un punto di vista psicologico e sociale, come funziona?
Per lungo tempo il tema razziale è stato offuscato con un linguaggio che parla di migrazioni e sicurezza, di policy e confini, di degrado, disagio e devianza.
Secondo Philomena Essed, antropologa, il razzismo quotidiano è fatto anche di ripetuti atti di umiliazione che comportano una sofferenza emotiva. E questo a prescindere dalle intenzioni dell’autore. Chi viene umiliato è messo in una condizione di inferiorità, non sente rispettata la propria dignità umana. L’umiliazione può servire a scoraggiare la resistenza contro l’oppressione razziale? In che modi chi la subisce può reagire?
Secondo Bell Hooks, famosa attivista, un passo fondamentale per resistere e lottare contro il razzismo (e il sessismo) è naming all our pain. Ossia: imparare a nominare la violenza razzista, in tutte le sue forme.
Riconoscere la sofferenza continuamente inflitta nei corpi e nelle vite dei soggetti razzializzati.
E per chi si trova nel gruppo dominante, tra i “bianchi” spesso incapaci di immaginare che cosa significhi vivere da “non-bianchi”, imparare ad ascoltare le storie di “ordinaria discriminazione”. Credere a chi dice di non sentirsi rispettato ed essere disposti a mettersi in discussione per poter lottare insieme contro l’ingiustizia razziale.
Molte volte capita che gli episodi di razzismo vengano ignorati, minimizzati. Oppure, quante volte sentiamo qualcuno dire: “non sono razzista, ma..”. Ma? Ecco quel “ma”, cela in realtà una frase pronta a utilizzare una qualsiasi generalizzazione a proprio favore e a sfavore della minoranza che si è presa ad esempio nella discussione.
Molti si vergognano di pensare con discriminazione, non è facile ammettere di essere razzisti.
Dénètem Touam Bona, professore di filosofia e antropologia, scrisse: “Non fate finta di non vedere, aprite gli occhi sull’immondo che incombe. Guardatelo in faccia questo complesso di superiorità razziale profondamente radicato nelle società occidentali. L’eredità nauseabonda del colonialismo. […] Aprite gli occhi sulla cancrena del razzismo che le politiche migratorie non fanno che alimentare istillando insidiosamente nelle menti l’idea che i «migranti» e «giovani di origine straniera» siano un pericolo per le società europee, siano sinonimo di terrorismo, criminalità organizzata, delinquenza ecc. A chi ride dell’umanità che annega, vorrei dire questo: il nero che agonizza sotto i vostri occhi e che voi insultate, questo nero creato dalla fantasia, questo nero nato dalla decomposizione del “bianco”, questo nero non c’è! Vive solo nel più profondo di voi”.
Ma che vi credete?! Non ci si libera con così poco della propria parte d’ombra”
Il razzismo continua a uccidere e a disumanizzare in primis chi disumanizza “gli altri”.
La psicologia sociale esplora da sempre gli effetti che l’appartenenza a un gruppo sociale ha sui comportamenti individuali che stanno alla base di ciò che chiamiamo razzismo.
Perché e in che modo queste basi sono radicate nel nostro funzionamento psicologico e sociale? Perché il razzismo è così difficile da combattere?
Innanzitutto, il razzismo si basa sul processo psicologico di categorizzazione, che avviene in tutti gli ambiti della psicologia. Per esempio, la percezione visiva è considerata dalla ricerca come il risultato di un processo di categorizzazione. Senza categorizzazione, il nostro cervello non potrebbe elaborare tutte le informazioni che riceve dall’ambiente.
Facciamo un esempio, pensiamo ai fili d’erba di un prato: se il nostro cervello li analizzasse tutti uno per uno, la nostra specie sarebbe già scomparsa dalla faccia della Terra, morta di fame o vittima di un predatore. Invece, percepiamo che c’è un unico oggetto che chiamiamo «prato», dopodiché passiamo all’esplorazione dell’ambiente. Il concetto di prato è una semplificazione molto utile, ma può anche essere fuorviante: per esempio, può impedirci di differenziare le diverse varietà di erbe che vi crescono o ancora di distinguere dove esattamente finisce il prato e dove inizia il bosco.
Lo stesso concetto vale per le categorie sociali (di persone): ci sono, per esempio, due gruppi che possono essere denominati «gli Italiani» e «i Francesi», ma non esiste una chiara linea di demarcazione tra le due categorie. Le persone con doppia nazionalità appartengono a entrambi i gruppi? Quelle che vivono da tempo in Italia ma non hanno la cittadinanza sono considerate italiane? O ancora, qual è la definizione esatta di nazionalità?
Ci sono molte differenze visibili, ma mancano confini chiari tra le due cose. Così, per amore della semplificazione, ogni forma di categorizzazione è indispensabile e utile ma soggetta all’errore, soprattutto quando si passa dagli oggetti alle persone. Soprattutto considerando che gli individui sono molto più diversi tra loro dei fili d’erba di un prato… Ecco che subentrano gli stereotipi.
Gli stereotipi possono essere considerati come teorie della personalità implicite o ingenue, ossia non scientificamente provate.
Possono essere relative a gruppi di persone definiti attraverso la categorizzazione sociale, indipendentemente dal fatto che si tratti dei gruppi ai quali apparteniamo o di quelli ai quali non apparteniamo. Gli stereotipi possono essere positivi o negativi.
Una prima caratteristica degli stereotipi è la loro esagerazione.
Alcuni stereotipi possono avere un «fondo di verità», ma questo fondo di verità viene molto facilmente esagerato nelle rappresentazioni. Sebbene siano il più delle volte sbagliati quando vengono applicati a un determinato individuo appartenente a un gruppo, sono comunque utili per la categorizzazione sociale, nella misura in cui semplificano l’ambiente permettendoci di avere aspettative (anche se spesso false) sul comportamento altrui. Il che può darci un senso di padronanza e controllo importante per la nostra vita mentale.
Un’altra funzione degli stereotipi è quella di giustificare le disparità sociali e la discriminazione, ossia la componente comportamentale del razzismo: pensare che gli stranieri siano delinquenti giustifica il fatto di votare a favore di politiche restrittive e discriminatorie.
Un’altra caratteristica insidiosa degli stereotipi è quella di avere effetti impliciti e inconsci. Inoltre, l’uso di stereotipi è un segno di pigrizia mentale: aumenta quando abbiamo meno tempo per giudicare qualcuno e nelle persone che hanno una visione semplicistica del mondo (disagio con l’ambiguità, preferenza per l’ordine, le situazioni prevedibili e le decisioni rapide, rifiuto della rimessa in discussione). Infatti, il nostro cervello preferisce utilizzare le informazioni con il meno dispendio di energia possibile, per cui ecco qua che si cede allo stereotipo.
Gli stereotipi sono anche molto difficili da correggere, dato che i controesempi (per quanto numerosi) sono spesso interpretati come eccezioni. Inoltre, tendono ad avverarsi per il semplice fatto che qualcuno ci crede, anche se non sono veri, in virtù del fenomeno della cosiddetta profezia autorealizzante. Gli stereotipi possono essere modificati soltanto a lungo o addirittura a lunghissimo termine.
Distinguiamo tra due tipi di razzismo: il razzismo tradizionale e quello moderno.
Nella psicologia sociale, il razzismo tradizionale è generalmente definito come il rifiuto degli esogruppi considerati minacciosi ed è fondato su credenze circa la loro inferiorità genetica. Questa definizione rimanda ai processi di categorizzazione sociale e stereotipi, ma con in più l’idea di essenzialismo. Ossia l’attribuzione di una proprietà o di un meccanismo insiti nelle categorie che ne costituiscono l’”essenza”. Fortunatamente, dalla fine del secolo scorso, i sondaggi hanno evidenziato un calo dell’adesione a questo razzismo tradizionale.
Gli psicologi sociali si sono chiesti se questo calo fosse dovuto a una reale diminuzione del razzismo o all’adozione nel 1960 di leggi antirazziste negli Stati Uniti e in alcuni Paesi europei. Hanno in realtà individuato nuove forme di razzismo moderne.
Comprovatamente discriminatorie, hanno in comune il fatto di essere più difficili da riconoscere, più indirette e più sottili.
Tra queste troviamo il razzismo simbolico, che si riferisce all’occultamento del razzismo agli occhi altrui. Poi troviamo il razzismo ambivalente-amplificato che descrive la coesistenza in uno stesso individuo di sentimenti positivi e negativi attivati a dipendenza del contesto. Per esempio, i sentimenti negativi razzisti vengono mobilitati in una competizione, ma non in un contesto di aiuto umanitario.
Il razzismo avversivo che consiste nell’occultamento del razzismo a sé stessi, ossia in una forma inconscia di razzismo nella quale gli atteggiamenti negativi vengono espressi soltanto se possono essere attribuiti a un altro fattore. Studi condotti al riguardo con metodi recenti e impliciti hanno dimostrato che anche le persone antirazziste conoscono gli stereotipi negativi razzisti e che di conseguenza nessuno è immune al razzismo. Il razzismo regressivo secondo cui le idee egualitarie moderne vengono demolite da situazioni di stress che fanno regredire le persone a comportamenti discriminatori.
Il razzismo sottile è caratterizzato dall’esagerazione delle differenze culturali tra il gruppo di appartenenza e le minoranze etniche discriminate. Anche dalla difesa dei valori tradizionali del proprio Paese contro le usanze straniere e dall’attribuzione di emozioni positive al solo gruppo di appartenenza. Infine, il razzismo mascherato riscontrato tra le persone che, nei sondaggi, negano l’esistenza del razzismo nel loro Paese.
Vedendola con la lente della psicologia sociale, ci rendiamo conto che le basi psicologiche e sociali del razzismo siano profondamente radicate nei nostri modi di pensare e comportarci. Questi meccanismi, come gli stereotipi, sono appresi culturalmente e sviluppati per sopravvivere in un mondo ostile nel corso dell’inizio della nostra storia. E’ facile capire come siano alla base del razzismo.
Per quanto però siano il risultato di processi lunghi e difficili da modificare, la ricerca evidenzia che con l’educazione e la riflessione consapevole è possibile combatterli.
Gli aspetti automatici e impliciti degli stereotipi e del razzismo possono essere combattuti con una delle scoperte umane più potente: la conoscenza. Sapendo dell’esistenza di questi processi possiamo inibirli, combatterli nei nostri ragionamenti quotidiani e incoraggiare chi ci sta attorno a fare lo stesso, magari con un lavoro di sensibilizzazione.
Nella sostanza, il razzismo è alimentato dall’ignoranza, come carburante più efficiente. Sono molti gli esperimenti che dimostrano che immergendosi nella cultura di un popolo diverso a noi, imparando a convivere con loro e ad apprezzarne gli usi e i costumi, gli stereotipi cadono. Certo, si possono anche rafforzare, ma nel momento esatto in cui l’altro si mette nei panni dello “Straniero”, ne capisce le idee e le tradizioni, e crea così un legame che abbatte lo stereotipo iniziale.