Coercizione e declino: l’eclissi del talento

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Dalle colline Hollywoodiane alle residenze Milanesi, il 2025 si chiude con il crollo dell’impero dell’abuso. Non siamo di fronte a scandali di costume, ma alla rivelazione di una coercizione sistemica dove il lavoro è diventato un’arma di ricatto.

C’è una distrazione oscura, quasi un’interferenza statica, che sta disturbando le frequenze di questo Natale 2025, rendendo le luci della città improvvisamente più fredde e le vetrine meno rassicuranti. Mentre il mondo corre verso la fine dell’anno, lo sguardo collettivo è costretto a fissare un abisso che si è spalancato sotto i piedi dello show business globale. Inghiottendo quella patina di rispettabilità che per decenni ha coperto l’indicibile. Il filo rosso che collega le inchieste federali americane ai fascicoli che oggi riempiono le scrivanie della Procura di Milano non è intessuto di pettegolezzi, ma di una coercizione feroce e silenziosa che non possiamo più permetterci di ignorare. Quello a cui stiamo assistendo, con il crollo verticale di figure che sembravano intoccabili, è l’epifania di una patologia sociale ormai in metastasi.

Non siamo al cospetto di deviazioni individuali o di un libertinaggio d’élite un po’ sopra le righe. Siamo di fronte a un modello industriale di predazione. Un paradigma che ha scientificamente sostituito il talento con la docilità e il contratto di lavoro con un patto faustiano che prevede la cessione del sé.

Per comprendere la gravità dello scenario, bisogna avere il coraggio intellettuale di spostare il focus dal sesso al lavoro. Perché è nella perversione del concetto di professione che si annida il vero crimine. La narrazione tossica e assolutoria secondo cui le vittime “ci stavano per fare carriera” va smontata non con il moralismo, ma con l’analisi lucida di una dinamica di potere fondata sulla coercizione. Le cronache di questi giorni, supportate dalle voci di una generazione che non è più disposta a tacere, descrivono una manipolazione stratificata. Un’architettura della trappola costruita con “trecentomila escamotage” psicologici. Il sistema non opera quasi mai con l’aggressione frontale, che sarebbe troppo rischiosa e visibile, ma attraverso un logoramento lento e costante. Si crea il bisogno, si alimenta la speranza narcisistica, si isola la preda e poi si chiudono ermeticamente tutte le porte, lasciandone socchiusa una sola: quella della camera da letto del gatekeeper.

È una forma di coercizione che ricorda il “doppio legame” teorizzato da Gregory Bateson. La vittima viene posta in una situazione paradossale dove qualsiasi scelta comporta una perdita devastante. Se rifiuta, perde il futuro per cui ha sacrificato tutto; se accetta, perde la propria integrità. In questo assedio, il rifiuto viene fatto coincidere semanticamente con il fallimento personale, trasformando l’ambizione in una gabbia dorata da cui si esce solo pagando un dazio carnale.

È qui che la riflessione deve abbandonare la cronaca per abbracciare il Diritto, inteso come l’ossatura etica della nostra convivenza civile. Perché ciò che è stato violato non è solo il buon costume, ma il patto costituzionale stesso. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, recita l’Articolo 1 della nostra Costituzione, ma il sistema che abbiamo lasciato prosperare ha trasformato il lavoro in una forma di prostituzione coatta. Tradendo la promessa dell’Articolo 3 e dell’Articolo 4 che vedono nella professione uno strumento di dignità e di sviluppo della personalità umana. Quando l’accesso al lavoro viene subordinato alla disponibilità sessuale, siamo di fronte a un’eversione dei principi fondamentali dello Stato.

Scendendo nel dettaglio penalistico, la fattispecie che si delinea ha una nitidezza cristallina che spazza via ogni ambiguità. La giurisprudenza è ormai monolitica nel riconoscere che la violenza sessuale, sanzionata dall’articolo 609 bis del Codice Penale, non richiede necessariamente la forza bruta o l’arma puntata. Esiste una violenza ambientale, figlia dell’asimmetria di potere, che è la forma più pura di coercizione. Il concetto chiave è il metus publicae potestatis, quel timore reverenziale che paralizza chi si trova in una posizione di inferiorità psichica o professionale. Un consenso espresso sotto la minaccia implicita della morte professionale, della terra bruciata, dell’ostracismo mediatico, è un consenso viziato alla radice, e dunque giuridicamente inesistente.

Ma c’è un’ombra ancora più inquietante che si allunga su queste storie, ed è quella dell’estorsione. L’articolo 629 del Codice Penale punisce chiunque, mediante minaccia, costringa taluno a fare o omettere qualcosa per procurarsi un ingiusto profitto. E qual è la minaccia in questo teatro della crudeltà? È l’oblio. È la cancellazione. Punire chi costringe taluno a fare o omettere qualcosa per procurarsi un ingiusto profitto significa riconoscere la natura criminale di questa coercizione.

Trasformare il sogno di un giovane in un’arma di ricatto, prospettando la fine della carriera come ritorsione per un rifiuto sessuale, è un atto criminale che priva l’individuo della sua libertà di autodeterminazione. Il “profitto” dell’aguzzino non è solo il piacere fisico, ma la riaffermazione del proprio dominio. La prova tangibile che tutto, persino l’intimità altrui, è acquistabile o estorcembile. Questo meccanismo ha generato una selezione alla rovescia, un darwinismo sociale perverso dove non avanza il più meritevole, ma il più ricattabile, o colui che, stremato dall’assedio psicologico, cede alla logica del sacrificio. È la vittoria del cinismo sulla poiesis, sulla capacità creativa, sostituita dalla mera disponibilità fisica.

La riflessione culturale ci porta inevitabilmente a Pier Paolo Pasolini, che con disperata lucidità aveva profetizzato decenni fa la “mutazione antropologica” degli italiani e la mercificazione totale dei corpi a opera di un consumismo vorace. Oggi quella profezia si è compiuta nel modo più turpe e letterale possibile. Il corpo non è più tempio, non è più sacrario dell’identità, ma merce di scambio. Una valuta corrente, pass da obliterare per accedere al livello successivo del videogioco sociale. Michel Foucault avrebbe parlato di una biopolitica oscura. Dove il potere non si limita a gestire la forza lavoro, ma pretende di disporre dei corpi, di penetrarne l’intimità attraverso una coercizione sottile che disciplina il desiderio fino a renderlo funzionale al profitto. In questo scenario, il curriculum vitae è stato sostituito dalla carne. E la competenza è diventata un accessorio irrilevante rispetto alla “disponibilità totale” richiesta dal sistema.

Da donna, osservare l’emersione di queste dinamiche provoca un senso di riconoscimento doloroso e una vertigine antica. È un copione che il genere femminile subisce da millenni. Una ferita storica mai rimarginata che ci ha visto troppo spesso ridotte a oggetto di scambio. Tuttavia, il fatto che oggi emergano con prepotenza storie di vittime maschili, di ragazzi giovani stritolati dallo stesso ingranaggio predatorio, ci impone di elevare l’analisi oltre la dialettica di genere. L’abuso non è una questione di sesso, è una pura questione di Potere. Il predatore è un onnivoro che si nutre di vulnerabilità. Oggettifica l’essere umano – come descritto dalla filosofa Martha Nussbaum – riducendolo a strumento per il proprio piacere. Che la vittima sia uomo o donna è irrilevante per la macchina. Ciò che conta è la sottomissione, l’atto di piegare l’altro ai propri voleri sfruttando il suo bisogno di affermazione tramite la coercizione.

Il crollo di questi “giganti” dai piedi d’argilla, che segna indelebilmente la fine di questo 2025, è forse l’unica notizia salvifica in un panorama desolante. Lo smantellamento delle reti di protezione e omertà, la caduta del velo di ipocrisia, è il segno che il tempo dell’impunità è scaduto. Lo sdegno che attraversa l’opinione pubblica non va liquidato come moralismo bigotto, ma accolto come un sussulto di dignità civile, un ritorno alla consapevolezza che esistono confini invalicabili.

Dobbiamo rifiutare categoricamente di accettare che il mondo del lavoro sia una zona franca governata dalla coercizione. Dobbiamo pretendere che il talento torni a essere l’unico metro di giudizio e che il corpo torni a essere inviolabile. Ripristinando quel confine sacro tra la persona e l’oggetto che il sistema ha cercato deliberatamente di cancellare. Il sipario è calato su questa epoca oscura e collusiva; sta ora alla nostra coscienza collettiva assicurarci che non si alzi mai più sulla stessa scena. Perché nessun sogno, per quanto luminoso, vale il prezzo della propria anima.

E forse dovremmo ripartire proprio da quell’imperativo categorico di Immanuel Kant che abbiamo colpevolmente dimenticato.

 «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai semplicemente come mezzo».