Il nuovo respiro di Blazy: destino e mito di Chanel

da | FASHION

Coco Chanel, l’inizio della ribellione

Chanel non è un marchio, non lo è mai stato. È un destino che ti entra sotto pelle, come una cicatrice che non si cancella. Pronunci quel nome e senti vibrare un’eco: non è la moda a parlare, è la vita. È Gabrielle. Coco. La bambina abbandonata, l’orfana che non chiese compassione, ma volle vendetta. Non sulla miseria, non sulla sventura, ma sul destino che le diceva: resta al tuo posto. Lei invece no. Lei tolse alle donne le armature invisibili dei corsetti, consegnò loro il jersey e il tweed, regalò al nero il coraggio di diventare splendore. Inventò un modo di essere libere. Di respirare. Di esistere. Persino il suo profumo era ribellione: non un mazzo di fiori, ma un numero. Secco. Crudo. Incantato. Chanel, fin dall’inizio, è stato questo: uno schiaffo al mondo, un “io non mi adatto”.

Lagerfeld, la fiamma che divenne incendio

Poi arrivò Karl Lagerfeld. E con lui Chanel non rimase una fiamma: divenne incendio. Karl, il Kaiser, prese i segni lasciati da Coco e li trasformò in mito spettacolare. Le sue sfilate non erano passerelle, erano pianeti interi: supermercati, spiagge, stazioni spaziali. Teatri dove la moda si faceva vita e la vita si faceva moda. Tutto eccesso, tutto meraviglia. Eppure, in quel delirio magnifico, il cuore di Coco pulsava ancora: il tailleur in tweed, la borsa matelassé, le perle che non erano frivolezze ma armi di femminilità. Coco aveva distrutto i codici, Karl li aveva trasformati in sinfonie.

Blazy, l’architetto silenzioso

E oggi? Oggi Chanel si trova davanti a un nuovo capitolo. A scriverlo è Matthieu Blazy. Giovane, straniero a quel circo mediatico che divora tutto. Un architetto silenzioso, un uomo che preferisce costruire piuttosto che mostrarsi. E il suo debutto alla Paris Fashion Week è stato già un grido, ma sussurrato, intimo, forte.

Il Grand Palais trasformato in cosmo: pianeti sospesi, passerelle come orbite, specchi neri che riflettevano l’infinito. Chanel come costellazione, Chanel come viaggio oltre il tempo. Ma i capi, più delle scenografie, hanno parlato. Tweed che non era più rigido, ma vivo: pieghe, imperfezioni, come una pelle già vissuta. Borse iconiche, non intoccabili reliquie, ma compagne stropicciate, amate. Scarpe bicolore che si moltiplicavano, mutavano forma, a dire che il passato non muore mai: si trasforma. E poi tailleur morbidi, pantaloni fluidi, blazer androgini: Coco avrebbe sorriso, lei che rubava ai maschi per ridisegnare la donna.

Blazy ha osato ciò che oggi è quasi scandaloso: restituire la moda al respiro umano. Non più la dea irraggiungibile, ma la donna vera. Che cammina, che cade, che si rialza. Che non teme la piega, né lo sgualcito. Perché la bellezza non sta nella perfezione, ma nell’imperfezione che sa raccontare.

Vanessa Friedman e l’universo Chanel

Vanessa Friedman, critica di moda del New York Times, ha sottolineato come il lavoro di Blazy non sia un semplice atto di successione, ma una vera rifondazione. Dopo averlo definito “il mago di Milano” per il suo lavoro a Bottega Veneta, Friedman ha visto nel suo approdo a Chanel “non solo un nuovo show, ma un nuovo universo”, un sistema planetario in cui i codici storici della maison non vengono citati come reliquie, ma rielaborati come materia viva.

Nei suoi articoli più recenti, la Friedman ha insistito su un punto: la forza di Blazy sta nel sottrarre, non nell’accumulare. Nell’abbandonare il fragore spettacolare per un’intimità radicale, che restituisce alla moda la sua funzione primaria: vestire, accompagnare, raccontare la vita di chi indossa. Chanel, letta attraverso i suoi occhi, diventa così un luogo di verità più che di illusione.

La terza via

Il confronto è inevitabile. Coco la ribelle. Karl il visionario. Blazy sembra voler aprire una terza via: quella dell’intimità, della sostanza, della memoria che non resta reliquia ma diventa carne.

E forse il coraggio, oggi, è proprio questo. Non urlare più. Non abbagliare. Ma restare. Essere. Dire al mondo che il lusso non è trofeo, non è vanità. È una complicità segreta tra chi crea e chi indossa. È un filo invisibile che lega la storia al presente.

Perché anche oggi, come ieri, restare se stessi significa cambiare. E Chanel continua a farlo.

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