Sean “Diddy” Combs è stato appena giudicato colpevole. Non per tutto, però. E questo rende la sentenza più amara che storica.
Il processo federale che vedeva Diddy imputato per gravi crimini – tra cui traffico sessuale, coercizione, abuso di potere, violenza psicologica e fisica – si è concluso con una decisione che lascia un sapore stucchevole in bocca: condannato per due soli capi d’accusa legati al trasporto per prostituzione. Tutto il resto? Assolto. O, peggio, normalizzato.
Nonostante le numerose testimonianze, le denunce pubbliche, i video di violenza espliciti, e oltre trenta cause civili presentate da donne che raccontano la stessa storia da incubo, la giustizia ha fatto quello che fa troppo spesso: ha concesso uno sconto all’uomo potente.
La giustizia si è genuflessa a capo chino – per l’ennesima volta – alla volontà del Dio denaro.

Cosa dice la legge per Diddy
La legge federale americana punisce il traffico sessuale con pene severe, ma per arrivare a una condanna piena servono requisiti stringenti: prove dirette, coerenza nei racconti, e nessun dubbio ragionevole. E se l’imputato è ricco, famoso, con una squadra legale da milioni di dollari? Ogni testimonianza diventa una montagna da scalare per chi ha subito violenza, senza un minimo di rispetto, senza un minimo di compassione.
Nel dettaglio, Combs è stato ritenuto colpevole di aver trasportato persone a scopo di prostituzione – reato grave, sì, ma non sufficiente a rappresentare l’orrore delle accuse mosse da Cassie Ventura e dalle altre. Non c’è stata condanna per traffico sessuale. Né per coercizione. Né per racket. Eppure era tutto lì, davanti agli occhi della Giuria.

Fortunatamente, il giudice ha stabilito che Diddy rappresenta un pericolo per la comunità e ha rifiutato la cauzione: questo significa che resterà in custodia fino alla sentenza definitiva, prevista tra qualche mese. Una minima consolazione, amara, se si pensa a quello che ha fatto.
Io NON riesco e NON voglio restare neutra.
E non voglio nemmeno provarci. Non siamo davanti a uno scandalo qualunque. Siamo davanti a decenni di abuso sistemico, normalizzato e protetto da fama, denaro e silenziosa complicità. Donne giovanissime, dipendenti economicamente ed emotivamente, usate, manipolate, picchiate. Filmate. Trattate come oggetti. Diddy non ha solo abusato delle sue partner. Ha costruito un impero sul controllo e sull’umiliazione.
E ora, mentre una corte lo definisce tecnicamente colpevole ma non abbastanza, io mi sento disgustata. Enormemente disgustata da un sistema che ancora una volta ha dato il minimo sindacale alla giustizia. Schifata per l’indulgenza strutturale che viene offerta agli uomini potenti. Schifata per ogni donna che ha raccontato la verità e che oggi si trova a guardare questo verdetto e a chiedersi se tutto questo dolore sia mai servito a qualcosa.
Diddy doveva marcire in galera. Doveva essere condannato per ogni singolo abuso, per ogni singolo livido, per ogni volta che ha svilito e cancellato l’identità di una donna per affermare la propria. Invece siamo qui, a commentare una sentenza zoppa.

Non è giustizia. È solo l’inizio.
Chi pensa che questa condanna sia un traguardo, si sbaglia. È solo un’altra tappa nel cammino frustrante di chi lotta per la verità contro il potere. Di chi denuncia, ma non viene ascoltata. Di chi trova il coraggio di parlare, e viene messa in discussione.
Ma noi non ci zittiamo. Non ci accontentiamo. Perché ogni volta che un uomo abusante riceve una condanna parziale, le sue vittime vengono umiliate due volte: la prima da lui, la seconda dal sistema che le dovrebbe protegge e tutelare.
E oggi, mentre Diddy attende la sentenza definitiva, noi aspettiamo molto di più: un mondo dove potere non significhi impunità, e dove una donna che denuncia venga creduta – subito, del tutto, per sempre.
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