Vestirsi da “povero” è diventato di moda. Il cosplaying poverty trasforma simboli di disagio in status symbol per chi vive nel privilegio.
Pantaloni strappati che costano centinaia di euro. Campagne pubblicitarie ambientate in fabbriche abbandonate. Celebrità che posano con sacchi della spazzatura. Non si tratta di una critica, né di una provocazione diretta, ma di un fenomeno culturale interessante, complesso, e a volte controverso: il cosiddetto cosplaying poverty, l’atto di chi, pur vivendo nel privilegio, si appropria di stili e simboli associati alle classi meno abbienti trasformandoli in oggetti di stile.
Dalle passerelle ai social media, dai cappotti logori ai jeans distrutti, dalle foto in ambienti sporchi al ritorno del vintage di seconda mano, questa estetica è ovunque. Ma da dove viene? E perché oggi ci affascina così tanto?


Da trasandato a trendy: le radici del cosplaying poverty
Negli ultimi anni, marchi come Carhartt, Dickies e Timberland — nati per vestire operai, carpentieri e agricoltori — sono diventati simboli di streetwear urbano. È bastato poco perché giacche robuste e pantaloni da lavoro si trasformassero in capi indossati in contesti completamente diversi da quelli per cui erano stati pensati.
La stessa dinamica si è vista con i capi “vissuti”: da segni di usura a dettagli di design venduti a prezzi elevati.
Non è la prima volta che accade. Il grunge negli anni ’90, il punk negli anni ’70 e persino la moda “heroin chic” hanno preso ispirazione da estetiche considerate marginali o disordinate, reinterpretandole in chiave fashion.

Povertà sulle passerelle
Oggi il discorso si è ampliato. Alcuni brand di alta moda — come Balenciaga, Acne Studios o Maison Margiela — hanno messo in scena ambienti ispirati al degrado urbano, al post-apocalittico o all’estetica del disagio: fango, ambientazioni industriali, abiti strappati, accessori che ricordano oggetti di recupero. In certi casi, lo stile richiama apertamente immagini forti: senzatetto, campi profughi, vecchi edifici abbandonati. Il tutto, però, all’interno di set altamente curati, con celebrità fotografate per riviste patinate. Un contrasto che colpisce e invita a riflettere.
Quando la povertà viene trattata come uno sfondo o una moodboard visiva, non resta l’empatia, ma solo l’estetica. E quando a farlo sono persone ricche, potenti e seguite da milioni di persone, il messaggio che passa è questo: la povertà va bene, purché sia finta.

Vintage e thrifting
Comprare usato non è più (solo) una scelta di necessità: è diventato un modo per esprimere personalità e gusto. Tuttavia, in alcuni casi, la crescente popolarità del vintage ha fatto aumentare i prezzi, rendendo meno accessibili proprio quei capi che una volta erano legati all’economia del risparmio. Il vintage è diventato elitario, mentre il fast fashion — più accessibile, ma tossico — resta l’unica opzione.
Ma perché tutto questo ci attrae? Forse perché viviamo in un’epoca in cui l’autenticità è il vero oggetto del desiderio.
In un mondo filtrato, l’estetica del vissuto, dell’imperfetto, del “povero ma vero” diventa qualcosa di affascinante. Ci comunica realtà. E proprio per questo, diventa una risorsa estetica e culturale potente.
Il fascino dell’autenticità
Oggi, comprare di seconda mano è un atto cool. Si chiama thrifting, è sostenibile e racconta chi sei. O almeno, così dovrebbe essere. In certi casi, è una forma di ammirazione. In altri, un modo per sentirsi “più veri”.
Tuttavia, quando i simboli della povertà vengono trasformati in status symbol, si crea una frattura. Da un lato chi li subisce davvero. Dall’altro chi li imita per guadagnare punti in autenticità. Ma quest’ultima non si compra e, soprattutto, non si finge. Vestirsi come se si appartenesse a un’altra classe sociale, senza viverne le conseguenze, è una forma di privilegio; e quando il disagio viene venduto come tendenza, chi lo vive davvero scompare dal racconto.

Estetica e consapevolezza possono coesistere?
La moda è da sempre un linguaggio ambivalente. Ma oggi, in un’epoca in cui le immagini viaggiano veloci e i contesti si sfumano, può essere utile domandarsi: stiamo celebrando un’estetica o raccontando una realtà che non ci appartiene?
Non si tratta di condannare il gusto per il vintage o i jeans strappati, ma di sviluppare una forma di consapevolezza in più.
Riconoscere il privilegio, capire da dove arrivano certe estetiche, ascoltare le storie vere e restituire dignità a chi è sempre stato messo ai margini: questo è il vero atto di stile.
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