Hikikomori: la realtà crescente del ritiro sociale volontario

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Il disagio adattivo sociale che porta all’isolamento: il fenomeno degli hikikomori.

In un mondo sempre più frenetico, che ruota intorno ai dettami di pressione e stress, isolarsi è a volte la soluzione. Mettere in pausa lavoro, rapporti, impegni, per passare un po’ di tempo soli con sé stessi: prendersi una sorta di vacanza anticonvenzionale, che non richiede uno spostamento fisico verso calde mete, ma solo la messa in pausa dei ritmi convulsi della vita quotidiana. Quello che per molti corrisponde ad un meritato riposo di qualche giorno, in alcuni casi viene declinato diversamente. Coloro che soffrono di ansia, che si sentono schiacciati dalle aspettative della società o riscontrano difficoltà nell’adattarsi ad essa, possono trovare nell’isolamento una zona di comfort così accogliente da escluderne il distacco, praticando un vero e proprio ritiro sociale.

Chi sono gli hikikomori

Il termine hikikomori deriva dall’unione di due parole giapponesi, hiku, “tirare indietro”, e komoru, “ritirarsi”. Coniato dallo psichiatra Saitō Tamaki negli anni ’90, descrive un fenomeno sociale che all’epoca stava nascendo, ma che è oggi in forte crescita. Il termine si riferisce a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per un tempo prolungato, rifiutando il contatto diretto con il mondo esterno ed isolandosi nella propria abitazione, in alcuni casi negando ogni tipo di interazione anche con la propria famiglia.

Il disagio può essere manifestato in diversi modi: sebbene si tratti di isolamento sociale volontario, ci sono delle varianti. Alcuni hikikomori restano in casa tutto il giorno per uscire solo di notte o alle prime luci del mattino, per avere la certezza di non incontrare nessuno, o ancora, fingono di recarsi a lavoro o a scuola mentre girovagano senza meta, attendendo il momento giusto per rientrare in casa senza destare sospetto.

Un fenomeno sempre più trasversale

Il fenomeno riguarda soprattutto i più giovani, perlopiù maschi, ma vi è una grandissima incidenza anche nelle fasce più adulte. Questo perché, anche se l’hikikomori insorge durante l’adolescenza, tende a cronicizzarsi facilmente, arrivando a durare anche per molti anni. Oltre quello dell’età, un altro mito da sfatare è quello dei paesi coinvolti. Il fenomeno nasce in Giappone, e secondo molte ricerche è stato proprio il sistema culturale del paese ad alimentarlo: pressati dai valori sociali basati sull’estremo perfezionismo, i giovani non si sentono all’altezza degli standard loro richiesti. E non avendo alcuna possibilità di sperimentarsi, ma spinti dal bisogno di scegliere il proprio futuro a colpo sicuro, preferiscono autorecludersi piuttosto che fallire. Se è vero che il Giappone ha fatto da culla, è altrettanto vero che il disagio si è diffuso ovunque. In Italia si stimano dai 100 ai 200 mila casi, in continuo aumento.

Internet: una chiave che apre, o chiude?

Le motivazioni che spingono gli hikikomori ad emarginarsi possono essere legate al proprio carattere, problemi familiari, delusioni a livello lavorativo o studentesco e, come abbiamo visto, alle pressioni sociali. Molto spesso si crede che tra le ragioni rientri anche la dipendenza da internet, ma Marco Crepaldi, psicologo e fondatore dell’Associazione Hikikomori Italia, spiega come non sia proprio così. La dipendenza da internet è una conseguenza dell’isolamento, non una causa. L’accesso ad internet per gli hikikomori rappresenta una finestra sul mondo, quella stanza diventata una prigione sembra espandersi. Internet può essere sia la chiave con la quale uscire dalle proprie mura, sia quella con cui chiudervisi definitivamente.

Poter essere in continuo contatto con il mondo esterno, senza necessariamente doverlo vivere, facilita la reclusione. Gli hikikomori moderni riescono a mantenere le loro relazioni sociali, a rimanere informati ed intrattenersi grazie all’accesso alla rete. La rete è più permissiva, siamo tutti più sicuri, tutti al pari di tutti. L’iperconnessione però, facilitando i contatti, introduce anche maggiori insicurezze, come il costante confronto con l’altro, che pone standard inarrivabili e che in gran parte dei casi, è un invito alla chiusura.

Il fenomeno, ancora oggi, viene stigmatizzato, minimizzato come un semplice capriccio, accompagnato dal solito ritornello del giovane nullafacente svogliato che non ha voglia di far nulla. Al contrario, cercare di capire, e mettersi nei panni dell’altro, a volte può essere il primo passo verso la sua liberazione.

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