Schadenfreude: il piacere nascosto di quando gli altri cadono

da | LIFESTYLE

Perché il fallimento altrui ci consola (anche se non lo ammettiamo mai)

Parliamoci chiaro: siamo tutti campioni di empatia a parole. Sui social dispensiamo cuori, abbracci virtuali, parole dolci. “Non giudicare”, “Mettiti nei panni degli altri”, “Sii gentile, sempre”. Ma poi, sotto sotto, quando qualcuno inciampa, scivola, cade rovinosamente… qualcosa dentro di noi si accende. Un fremito sottile, un sorrisetto a metà. Non lo diciamo, magari neppure lo ammettiamo a noi stessi. Ma lo proviamo: un certo piacere, una soddisfazione che ha il retrogusto proibito della schadenfreude – quella parola tedesca impronunciabile che racchiude il piacere per la sfortuna altrui.

No, non è sadismo. Non siamo mostri. È molto più semplice (e umano) di così.

La psicologia ci tende una mano: non siamo cattivi, siamo fragili. Gioire dei guai degli altri è un piccolo balsamo per le nostre insicurezze. “Anche lui ha fallito”, pensiamo. “Non sono l’unico a sbagliare”. È un sollievo. Una boccata d’aria in quel mare agitato che è il confronto sociale. Perché, sì, viviamo nel confronto. In un mondo dove sembrare felici è più importante che esserlo, vedere qualcuno cadere ci fa sentire meno soli. Meno ultimi.

Questa emozione, per quanto scomoda, ha radici profonde. Non è nata con i social, né con la modernità. Già Aristotele ne parlava, seppure con un altro nome: epicaricacia. Un sentimento antico come l’uomo, che ha viaggiato nei secoli trasformandosi, nascondendosi, riaffiorando con discrezione nei momenti più imprevisti.

Ma attenzione: schadenfreude non è sadismo. Non infliggiamo dolore. Ci limitiamo a osservarlo. Siamo spettatori silenziosi che applaudono mentalmente quando la vita fa il suo lavoro più crudele. È una differenza sottile, ma fondamentale. Perché il sadismo è un’azione. Qui invece si parla di reazione.

Allora viene da chiedersi: perché lo facciamo? E la risposta non è semplice.

Da una parte c’è l’insicurezza, la mancanza di autostima. Quando ci sentiamo piccoli, il crollo dell’altro ci fa sembrare – per un attimo – più grandi. È come se il suo dolore colmasse il vuoto dentro di noi. Dall’altra parte, c’è il bisogno di giustizia universale: se a me le cose vanno male, è giusto che succeda anche agli altri. È una forma contorta di equilibrio.

E poi c’è la fatica di essere felici per gli altri. Richiede generosità emotiva, maturità, forza interiore. Tutte qualità che si coltivano con tempo e fatica. Per questo, forse, è più facile godere delle disgrazie altrui che celebrare i loro successi.

Ma non è tutto perduto.

Questa pulsione può diventare uno specchio. Uno specchio che ci invita a guardarci dentro. Perché dietro ogni schadenfreude si nasconde una domanda che non vogliamo farci: “Perché la felicità degli altri mi infastidisce? Perché il loro dolore mi conforta?”

Forse, da lì, si può iniziare a cambiare. Non reprimendo, ma comprendendo. Non giudicandoci per ciò che proviamo, ma usandolo come chiave per crescere. Perché chi riesce ad essere sinceramente felice per gli altri, ha conquistato qualcosa di raro: la pace con sé stesso.

E allora sì, possiamo continuare a parlare di empatia. Ma con meno ipocrisia e più verità. Con la consapevolezza che non siamo santi, ma esseri umani. E che il primo passo verso l’empatia autentica… è ammettere di non averne sempre.

Foto: Pinterest