Anna Wintour: il diavolo non veste Prada, è Prada

da | FASHION

Anna Wintour, la donna che decise chi siamo

“Il mio mestiere non è piacere. È scegliere.”
– Anna Wintour (anche se non l’ha mai detto così, avrebbe potuto.)

Chiariamo subito un punto: Anna Wintour non è una direttrice di un magazine di moda. È un’istituzione.

E quando dico “istituzione” non intendo quelle cose grigie e noiose che si spolverano nei salotti buoni della cultura — no. Wintour è l’equivalente editoriale di una regina elisabettiana, con meno inchini e più diktat. E non ce ne voglia la monarchia britannica (ahimè), ma in quanto a longevità nella moda, la signora col caschetto è ancora imbattibile.

Il suo sguardo, eternamente schermato da occhiali scuri anche nelle notti di gala, non è solo una firma estetica: è un avvertimento. Come se dicesse:
“Io vedo tutto. Anche quello che non vuoi che veda.”
E, credetemi, lo vede.

Condé Nast: la sua Versailles

Parlare di Anna senza parlare di Condé Nast è come raccontare Versailles senza nominare Luigi XIV.
Lei non è solo il volto di Vogue: è l’architetta di un impero mediatico.

Nel 2020 è diventata Chief Content Officer dell’intera Condé Nast, ovvero il colosso editoriale che controlla Vogue, The New Yorker, GQ, Vanity Fair, Wired e altri templi della coolness globale.

Una mossa che ha riscritto l’organigramma aziendale come se fosse un editoriale del numero di settembre: preciso, visionario, spietato.
Ha accentrato le redazioni, centralizzato le copertine, digitalizzato le strategie, e scelto — come un curatore di museo rinascimentale — chi avrebbe avuto una voce. E chi no.

Il culto dell’editoriale di settembre

Parliamo di settembre.
No, non dell’autunno e delle castagne — ma del September Issue, la Bibbia della moda. Un numero così importante che ci hanno fatto un documentario intero: The September Issue (2009), dove Anna è protagonista assoluta. Più regina che regista.

In quelle pagine, ogni settembre, non si raccontano vestiti. Si racconta il potere. Chi lo detiene, chi lo incarna, chi lo rappresenterà nei prossimi dodici mesi.

Un esempio su tutti? Il numero del 2016, con Michelle Obama in copertina. Una foto perfetta, elegante, potente. Ma è l’editoriale di Wintour a fare il vero miracolo:

“Michelle Obama ha ridefinito il significato di First Lady, portando con sé grazia, forza e stile. Non ha mai ceduto al compromesso dell’apparenza, ma ha fatto della sua immagine un’estensione della sua intelligenza e del suo coraggio.”

Non è una descrizione. È una consacrazione.
Wintour non racconta le icone. Le crea.

La leggenda, il film, il meme

Ovviamente, nel 2006 arriva anche il film. Il diavolo veste Prada.
E sì, la direttrice Miranda Priestly interpretata da Meryl Streep è liberamente (ma non troppo) ispirata ad Anna. Capelli a caschetto, tono glaciale, potere assoluto. Non una caricatura, ma un’imitazione quasi religiosa.

La cosa più affascinante? Wintour non ha mai negato nulla. Si è presentata all’anteprima del film… in Prada.
Uno scacco matto in quattro lettere.
Anna 1 – Hollywood 0.

Da lì, Anna è diventata meme, simbolo, parodia, icona pop. Ma mentre l’internet la trasformava in personaggio, lei diventava sempre più potere.

Critiche, accuse e il gelo

Nessun impero è senza crepe.
Nel 2020, nel pieno della rivoluzione culturale post-George Floyd, Condé Nast fu accusata di discriminazione sistemica, mancanza di inclusività e “elitismo bianco”.
Wintour rispose con una mail interna ammettendo “di non aver fatto abbastanza”.

Molti la considerarono tardiva, altri glaciale.
Ma anche lì, Anna fu Anna: nessuna lacrima, nessun crollo. Solo potere che si adatta.

Ha promosso nuove figure editoriali, ha aperto a copertine più varie, ha cambiato tono. Non è diventata woke — è diventata stratega.
E anche questo è stile. Il più difficile: quello della sopravvivenza.

Parigi 2019, défilé Dries Van Noten

Il potere di non sorridere

Viviamo nell’epoca della vulnerabilità performativa.
CEO in felpa, influencer in lacrime, brand che ti danno del tu su TikTok.

Eppure, Anna Wintour resta lì: distante, irraggiungibile, inarrivabile.
È il contrario della trasparenza. È l’opacità sacra del mito.
Ed è proprio per questo che oggi la GenZ — che pure ama la trasgressione, i colori, l’anti-moda — la guarda con rispetto.

Perché dove c’è mistero, c’è mito.
E dove c’è mito, c’è Anna.

Il caschetto e la corona

Ci serve ancora Anna Wintour.
Ci serve il suo sguardo chirurgico, il suo passo sicuro, la sua capacità di scegliere.
In un’epoca dove tutto è accessibile, lei è rimasta inaccessibile.
E questo, nel 2025, è la forma più estrema di potere.

Forse il diavolo veste Prada.
Ma Anna Wintour è Prada.
E lo sarà finché ci saranno copertine da decidere, corone da non indossare e occhiali da non togliere mai.

Photocredits: Vogue Italia, Pinterest