Come e perché stiamo vivendo la crisi del cinema tradizionale
“Il cinema è più bel mestiere del mondo. Non c’è niente di più bello, ma oggi si è tutto un po’ perso”.
Il produttore cinematografico italiano Vittorio Cecchi Gori, seduto sulla poltrona rosso fuoco dell’Alcazar di Roma, racconta agli italiani la trasformazione del cinema tradizionale.


“È una situazione complessa che non riguarda solo noi. Con l’avvento della televisione il connubio non è stato metabolizzato, e alla lunga il cinema sta soccombendo”.
Ma tutto questo com’è potuto succedere?
Il cinema ha finito per adattarsi inconsapevolmente agli standard della televisione. Bisognosa di contenuti per alimentare una programmazione continua, 24 ore su 24, non può permettersi la qualità e la cura artigianale di un film tradizionale, frutto di mesi di lavoro e di un intenso sforzo creativo.
Questo bisogno incessante di quantità ha penalizzato la qualità, spingendo il cinema a diventare una sorta di serbatoio per la tv, alimentandola con i suoi capolavori del passato, ma senza favorire la creazione di novità altrettanto valide.
In Italia, il monopolio della RAI e una visione miope della politica, hanno impoverito sia la qualità delle produzioni sia il ruolo del cinema come arte e industria.
“Per la televisione c’è un solo connotato: brutta! Non si scappa dalla bruttezza della televisione”.
Il produttore artigiano
“Merce molto rara il buon produttore. Il segreto è saper capire l’intuizione, stare sul set quotidianamente osservare gli attori. È un imprenditore prima di tutto, quindi deve comunque rischiare un po’ di soldi propri. Oggi non c’è più, purtroppo.”

La trasformazione della figura del produttore cinematografico è strettamente legata alla crisi del cinema tradizionale. In passato, era un imprenditore visionario, capace di riconoscere il potenziale di un progetto anche nei dettagli più sottili e di guidarlo con intuito e determinazione fino alla realizzazione. Era una figura presente sul set, pronta a intervenire e a rischiare risorse personali. Questo approccio quasi artigianale lo rendeva speciale, racconta Vittorio Cecchi Gori.
Oggi, invece, il ruolo del produttore si è progressivamente snaturato. La crescente influenza della televisione e delle piattaforme ha ridotto il margine di rischio creativo. Questa figura professionale è diventata il semplice mediatore tra le esigenze del mercato e la realizzazione del prodotto finale, insomma un fifone che rinuncia all’audacia e all’intuizione per piegarsi alle logiche commerciali. Non è una sfida creativa ma un esercizio di sopravvivenza.
La democratizzazione della produzione
YouTube, Instagram e TikTok, hanno democratizzato la produzione.
Quello che un tempo era un settore esclusivo, riservato a grandi studi e professionisti affermati, è diventato un terreno accessibile anche a chi non dispone di budget elevati o di conoscenze strategiche.
Prima, le produzioni costose, l’accesso esclusivo ai canali di distribuzione e il controllo dei grandi studi, rendevano l’ingresso nel settore una sfida per pochi privilegiati.
Con l’avvento dei social media tutto è cambiato. Oggi basta uno smartphone per iniziare a creare contenuti e raggiungere un pubblico globale. TikTok, Instagram e YouTube con strumenti di editing integrati e spazi di visibilità accessibili, consentono a chiunque di mostrare il proprio talento. Dai cortometraggi amatoriali ai vlog e alle web series, le opportunità sono infinite per chi ha qualcosa da raccontare.
La transizione da un modello di spettacolo collettivo, dove il cinema era il fulcro culturale, a un consumo più individuale attraverso schermi televisivi o dispositivi digitali, ha cambiato radicalmente il rapporto del pubblico con lo stesso.
Se da un lato, hanno reso possibile la nascita di un teatro decentralizzato e inclusivo, in cui chiunque può raccontare una storia e trovare il proprio pubblico, dall’altro, spingono verso un modello di consumo ancora più frammentato e immediato.
La priorità è data alla viralità, a discapito della profondità e della complessità. Siamo ormai diventati spettatori della morte del cinema tradizionale. L’arte non ha spazio per respirare.