“M-Il figlio del secolo”, la nuova miniserie Sky ispirata al libro di Antonio Scurati, è già un successo. Sui media, tra apprezzamenti e critiche, non si parla d’altro. Ma cosa successe alla moda italiana durante il ventennio fascista?

Su Sky va in onda un ritratto della figura di Benito Mussolini, colpevole della pagina più buia della storia italiana: il ventennio fascista. Nella produzione di Joe Wright, che già fa scalpore sui media, si raccontano il principio e l’evoluzione dell’ideologia fascista in relazione all’ambiante socio culturale dell’Italia anni ’20. Un viaggio tra i salotti futuristi e gli ambienti più popolari di una Milano quasi irriconoscibile. In questo quadro cupo e tragico quale è il ruolo della moda?
La moda durante il ventennio fascista
Sono gli anni ’20 del secolo scorso e la moda ha una sola ubicazione: Parigi. L’Italia aveva fatto qualche tentativo, da Mariano Fortuny a Rosa Genoni, ma il pensiero di una moda italiana è molto lontano. L’eleganza si disegna all’ombra della Torre Eiffel e, in Italia, le sartorie si limitano a comprare i modelli francesi per riproporli alle clienti. Al di là di una grande cultura artigianale si tratta di un’Italia dove il senso della moda è qualcosa di completamente assente. Non esiste uno “stile italiano“: la moda si fa a Parigi e per essere eleganti bisogna abbeverarsi alla fonte francese. Compatibilmente con le altre politiche fasciste, questo schema non piace affatto al regime che si pone l’obiettivo di creare una “Moda italica”, come scrivevano le riviste di settore.


Secondo il regime la fondazione di una nuova moda italiana era basata, innanzitutto, sul rifiuto della moda francese. I giornali di moda proponevano un modello di donna filiforme, come quelle immaginate da Erté, elegantemente avvolta negli abiti di Chanel, Lanvin e Schiaparelli. Una donna emancipata, sicura di se stessa e della propria femminilità. Tutte caratteristiche che non potevano essere accolte dall’ideologia Fascista che vedeva la donna unicamente come moglie e madre.
Il fascismo propone, infatti, la famosa immagine della “Signorina Grandi Firme” di Boccasile, formosa e mediterranea. Adatta per donare figli forti e robusti alla nazione. Su LIDEL, uno dei giornali italiani più allineati all’idea di una moda italica, si proclamava “snellezza non magrezza“. Mentre lo scienziato endocrinologo Nicola Pende definiti le misure perfette per le indossatrici: 1,56/60 di altezza per 55/60kg. “Una molle grazia della quale per tanti secoli è stata fiera e che solo da qualche decina d’anni s’era messa in testa di rinnegare“.


Il fascismo istituì, nel 1935, l’Ente Nazionale della Moda che aveva lo scopo di italianizzare l’abbigliamento femminile, dichiarando guerra all’egemonia francese. Alle sartorie italiane venne chiesto di produrre modelli italiani smettendo di copiare solo la moda parigina. Per i sarti del Belpaese, però, non fu affatto facile. Le clienti chiedevano moda francese e loro dovevano soddisfarle. Per questo motivo il Duce legiferò: l’Ente creò il marchio di garanzia per i modelli “di ideazione e produzione italiana”. In ogni collezione almeno la metà dei modelli presentati doveva esibire l’attestato di italianità. In caso contrario era prevista una multa da 500 a 2 mila lire.
Ma la clientela Italiana non voleva saperle e le sartorie si trovarono costrette a nascondere il marchio d’appartenenza per evitare che le collezioni rimanessero invendute. Su La Gazzetta del popolo scrivevano:”mostrava di accogliere l’abito italiano con sacrificio personale e lo sopportava come se dovesse sopportare un saio per puro spirito di disciplina, mentre tutti i suoi sogni di eleganza esotica si frangevano là, al confine, contro quelle porte ben chiuse“.
La moda autarchica
I tempi vennero, necessariamente, accelerati con l’avvicinarsi della seconda guerra mondiale. Le chiusure ai confini si inasprirono e, perfino Parigi, sembrava una meta lontanissima. Appannaggio solamente delle mogli dei gerarchi nazisti che vestivano, quasi unicamente, Chanel. Fu questo, secondo l’Ente, il momento migliore per promuovere la moda italiana che diventava una necessità del Paese. Così, tra Torino e Venezia, cominciarono le prime presentazioni di moda e l’Italia si fregiava di avere rilasciato quasi 14 mila patenti di garanzia.
Così la moda italiana cominciò ad affermarsi in tutta la penisola, ma l’autarchia porta con se i suoi problemi. Il nostro Paese non era in grado di produrre, in autonomia, tutto il materiale tessile necessario. Furono figlie di questo momento di difficoltà alcune grandi sperimentazioni tecniche della moda. Nacquero le cosiddette “fibre autarchiche”, come il lanital derivato dalla caseina o l’orbace, realizzato con le ortiche ed impiegato alla confezione della Camice Nere, divisa della milizia fascista.


La scarsità delle materia prime, però, colpisce sempre di più il nostro Paese e il regime introduce la politica del razionamento, che coinvolge anche i materiali tessili. Così la moda cambia volto e punta tutto sul risparmio di tessuto. Nasce un modello di upcycling ante litteram dove ogni materiale tessile diventa prezioso e può trasformarsi in qualcosa di nuovo. Le tende diventano abiti da sposa, i completi maschili tailleur da donna e i cappotti vengono modificati e rimessi a modello per nascondere i segni di usura. Perfino i collant sparirono dall’abbagliamento femminili perchè il nylon serviva per la realizzazione delle divise militari. Così la storia ci regala una delle immagini più toccanti di sempre. Per avere l’illusione che tutto andasse bene le donne erano solite lucidarsi le gambe con particolari creme e disegnarsi, sul retro della gamba, una riga che simulava la cucitura nel centro dietro delle calze dell’epoca.
Sarebbe fuorviante raccontare l’epoca fascista come l’inizio del Made in Italy, sancito, invece, dalla sfilata fiorentina di Giorgini del 1951. Certo è che i sarti italiani si sono dovuti accorgere che potevano farcele anche senza il supporto della Francia. Ci vorrà del tempo per decretare la vera vittoria della moda italiana. Ma questa storia insegna come, anche in un momento così terribile e buio la moda non possa affatto essere ignorata in quanto necessità. Necessità di rappresentazione e, incerti casi, di indispensabile leggerezza.
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