Avete mai letto un fumetto? Vi siete mai chiesti quanto lavoro si nasconde dietro ad un numero che trovate ogni mese in edicola? Oggi ce lo racconta Vanessa Belardo, disegnatrice/fumettista presso Sergio Bonelli Editore

Leggevi fumetti da piccola?
Non ho cominciato a leggere i fumetti da piccolissima. Tanti iniziano con Topolino alle elementari; io ho iniziato alle superiori. I primi me li passava mia sorella che era più grande di me.
Quale è stato il tuo primo ricordo con i fumetti?
Sicuramente Dylan Dog, mi piaceva molto sia esteticamente che caratterialmente, era moraccione, bello, dannato e problematico… Era il mio eroe.
Il tuo personaggio preferito ora?
Sandman. Mi piace sia come personaggio, ma anche come scrittura. Mi sembra unico. È l’uomo dei sogni, una figura mitologica che esisteva già nella letteratura inglese; lanciava la sabbia sugli occhi dei bambini per farli sognare. Ricorda gli anni ’80/’90 del mondo inglese sia in termini di musica che di estetica: il dark, il rock, le Bauhaus.
E poi Valerian e Laureline, un fumetto francese di fantascienza che come ambientazione ricorda quelle del quinto elemento di Luc Besson. Se Sandman è il mio personaggio maschile preferito, Laureline probabilmente è quello femminile.
Qual è stato il tuo percorso di studi?
Da piccola guardavo Indiana Jones e volevo fare l’archeologa, motivo per cui ho fatto l’istituto d’arte con indirizzo rilievo e catalogazione di beni culturali. Ma disegnavo già i fumetti. Anche nella mia tesi di fine anno c’era tanto dei fumetti.
Quando hai iniziato ad interessarti al mondo del disegno e dell’illustrazione?
Non me lo sono mai domandato. Adoravo leggere fumetti, era una passione e come tutte le passioni le coltivi negli anni.
Quando mia sorella è venuta a Milano, sono andata ad una fiera di fumetti e lì ho preso consapevolezza che esisteva un mestiere dietro tutto questo; perché per me era soltanto andare in edicola comprare il fumetto e leggerlo. Alla fiera ho anche incontrato autori e designatori e ho scoperto la Scuola del Fumetto di Milano, che ho iniziato l’anno successivo.
Come sei arrivata in Bonelli?
Le conoscenze sono sempre utili. Un insegnante della Scuola mi aveva presentato alla redazione Bonelli; ogni tre mesi andavo in redazione a farmi vedere. E un giorno mi hanno fatto provare a illustrare un storia.
Attualmente di quale fumetto ti occupi?
Sto lavorando su Dampyr da circa sei anni.

Lavori sempre sullo stesso fumetto da quando hai iniziato o hai fatto anche altro?
Ho iniziato con Jonathan Steele, che era della Star Comics; poi, per il Corriere della Sera, ho fatto degli allegati sui miti greci, la serie si chiamava Mitico. Successivamente ho lavorato per un’altra casa editrice, Arcadia, e poi sempre alla Bonelli, Nathan Never, un fumetto di fantascienza. Ho realizzato anche un progetto con una sceneggiatrice francese, Thea Rojzman, un libro, che sperò uscirà l’anno prossimo.

Quanto tempo all’incirca impieghi per illustrare un fumetto dall’inizio alla fine?
In media, calcolando che un numero mensile è di circa 94 pagine, ci si impiega un anno per una sola storia.
Come nasce una storia a fumetti?
Innanzitutto c’e una differenza tra fumetto seriale e fumetto d’autore. Il primo ha un personaggio, come può essere Dampyr, che esiste da anni.
In breve, lo sceneggiatore esegue la sceneggiatura, che viene passata al disegnatore, il quale illustra le pagine a fumetti; il tutto passa di nuovo all’editor e infine, dopo una revisione finale, va in stampa. Invece, in un fumetto autoriale non si è legati ad un personaggio già esistente; sviluppi una tua storia, sei tu il tuo sceneggiatore e disegnatore, fai tutto tu. L’editor supervisiona solo.
Raccontami di più, in cosa consiste la sceneggiatura o come fai ad elaborare le vignette?
La sceneggiatura è divisa in tavole o pagine, e per ogni tavola ci sono le vignette, divise per strisce (sono tre per ogni striscia alla Bonelli); in ogni vignetta lo sceneggiatore scrive la regia, ossia l’inquadratura da usare, che può essere primo piano, piano americano, mezzo busto, campo lungo, fare una città dall’alto oppure un dettaglio.
Faccio un esempio, lui scrive “Vignetta 1: dettaglio mani che scrivono sulla tastiera; Vignetta 2: controcampo, viso illuminato dallo schermo del computer, luce dal basso, sguardo del protagonista che scrive”. Quindi in ogni vignetta è descritto ciò che devi disegnare. Poi, oltre alla descrizione, c’è il dialogo che deve essere inserito nel ballon; perciò quando disegni devi calcolare l’ingombro del testo. Il testo è sempre più importante del disegno.
Puoi cambiare qualcosa della sceneggiatura mentre disegni?
Dipende. Alcuni sceneggiatori fanno una descrizione più sintetica altri più dettagliata, io preferisco quando ti lasciano più spazio. Qualcosa si può sempre modificare, non sono sempre così rigidi.
Mentre la griglia è una di quelle cose che vanno sempre rispettate. Bene o male non ci sono mai pagine a margine vivo o di solito non si fanno vignette storte come quelle americane; è una regia molto frontale la nostra.
Consegni tutte le tavole insieme, solo dopo aver completato il lavoro?
No, di solito la consegna avviene ogni tot. tavole. Io disegno prima tutto a matita, l’editor fa le correzioni su queste e solo dopo vado ad inchiostrare.

Preferisci i fumetti in bianco e nero o a colori?
Bianco e nero.
Tu lavori in bianco e nero? Quali sono le differenze in termini di lavoro?
Si, alla Bonelli solo in bianco e nero, poi ogni tanto mi capitano progetti a colori, ma in questi faccio quasi soltanto la colorista.
Preferisco in bianco e nero perché mi appaga un senso estetico legato al cinema tedesco, tipo Il Dottor Galigari, un’estetica un po’ dark, fatta di luci e ombre, un po’ drammatica. Il colore a volte toglie drammaticità ad una situazione.
Poi in ogni paese è diverso. C’è la scuola di fumettisti argentini, dove il bianco e nero è molto netto, è il nero che racconta; mentre nel fumetto francese è tutto sulla linea chiara e vanno di più i fumetti a colori. Anche gli americani preferiscono i colori.
E in Italia quali vanno di più?
Il fumetto popolare nasce in bianco e nero. Oggi però c’è più contaminazione; tanti fumetti e nuove serie stanno nascendo a colori, anche per guardare al tema dell’incisività. Alla Bonelli c’è sempre stata la tradizione di fare il Centesimo numero a colori.
Non è complicato trasmettere le emozioni in bianco e nero?
Sicuramente con il colore c’è uno spettro di soluzioni in più, mentre con il bianco e nero devi fare delle scelte. Con il colore se non sei convinto di qualcosa ti puoi salvare a livello di esecuzione. Con il bianco e nero devi decidere prima dove metterlo. Nelle scene dove devi trasmettere delle sensazioni più cupe o di tensione ovviamente deve prevalere il nero.
Quali strumenti si usano per disegnare fumetti?
Pennelli, pennini, pennarelli, bianchetti, spugnette, acrilico bianco, china, ma si sperimenta sempre.
Disegni solo a mano o anche con il computer?
Entrambi. Ma non c’è mai una richiesta esplicita. A me piace fare entrambe le cose, anche se avere la pagina fisica inchiostrata è più romantico come approccio.
Poi è sempre una sperimentazione. Il tradizionale ti offre un certo tipo di sperimentazione, ma il digitale anche. Non si vede più la differenza in stampa tra un disegno tradizionale o digitale. Ci sono dei pennelli digitali che simulano quelli reali, oppure che simulano l’effetto carta.
Esiste un linguaggio universale codificato “onomatopeico” in cui ogni gesto corrisponde ad un suono. Come li hai imparati?
Si esiste, ma li assimili senza accorgertene, mentre leggi. Anche le onomatopee le scrive lo sceneggiatore. C’è un codice di base che tutti conoscono.
Facci alcuni esempi!
Woof è l’abbaio del cane, Clang è una sbarra di ferro. Un’onomatopea che c’è sempre su Dampyr è Wooooosh, cioè l’effetto o del vento, o la trasformazione dei vampiri, tutte scene rapide, anche un personaggio che corre veloce.
Ogni fumetto ha alcune onomatopee più ricorrenti, per esempio in Tex ci sono mille Bang.

Quando ti chiedono che lavoro fai, come ti piace definirti?
In realtà quando me lo chiedono non so mai cosa rispondere, dico disegnatrice, però non mi vergogno anche a dire fumettista.
Si pensa sempre al disegnatore/fumettista come ad un mestiere legato esclusivamente ai fumetti che vengono venduti in edicola. Ma invece esso può essere applicato anche ad altre situazioni, giusto?
Come vignettista si possono fare le vignette suoi giornali, si può fare scolastica, ossia le illustrazioni sui libri di scuola, ma anche lavorare nella redazione della settimana enigmistica, per esempio nei rebus.
A me piace sia fare fumetti, ma anche illustrazioni. È divertente fare altro perché è un altro modo di pensare al disegno. Nel fumetto devi pensare sempre in narrazione per sequenza, invece lì devi raccontare tutto in un’immagine.
Adesso per esempio sto collaborando per un libro di latino, dove faccio i colori di un fumetto inserito nel libro. Oppure un mio collega fa storie legate alla pubblicità. Ci sono tante declinazioni.

Tirando le somme… è un mestiere creativo il fumettista? Ci hai raccontato che molte dritte vengono imposte dallo sceneggiatore…
È difficile sempre definire quanto artigianale, artistico o creativo sia questo lavoro. A livello di disegno penso sia molto complicato: è un prodotto in cui il disegnatore deve saper fare tutto. Fare fumetti significa che se una storia la devi ambientare in Cambogia devi andare a vedere tutte le foto, le reference, entrare in quel mondo. Ogni giorno devi metterti li ed imparare.
Inoltre, devi muovere dei personaggi che devono avere sempre lo stesso aspetto in diverse situazioni. Per esempio non devi rendere noiosa una scena di quotidianità, come un dialogo dentro ad un bar.
Un disegnatore quando è in giro guarda molto: come sono sedute le persone, come si muovono i volumi. La scuola migliore è l’osservazione.
“Il fumetto mette insieme tantissime cose: regia, anatomia, studio della prospettiva, bilanciamento del bianco e nero, luci, ombre, ecc. Non ci si annoia, c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare e da fare”.
Rimango sbalordita quando le persone non capiscono tutto il lavoro che c’è dietro.
Una cosa che odi disegnare?
I cavalli. È un grande classico, a meno che tu non sia un disegnatore di Tex, sono molto complicati da disegnare. Ma anche le pieghe degli abiti, capire come farle muovere in base ai gesti del personaggio.
Invece, cosa ti piace di più?
I cattivi delle storie, perché caratterizzarli esteticamente è più divertente. Ad esempio, ho fatto di recente dieci pagine per un fumetto americano, e dovevo fare un cattivo con l’abbigliamento un po’ western e un po’ giapponese, quindi ho preso la faccia di Marilyn Manson, magro, alto, quasi scheletrico, con un cappello nero, orecchini, bracciali, con un mezzo kimono e gli stivali da cowboy. Ti diverti soltanto a cercare le reference.
Vorresti creare un fumetto d’autore, scritto e illustrato da te? Magari con la collaborazione di qualcuno che stimi?
Non ho mai pensato di fare un progetto mio anche a livello di scrittura, ma ho già qualche idea per una collaborazione. Il mio sogno sarebbe fare un libro con una mia collega francese Thea Rojzman, con un segno più personale, liberandomi dal realismo puro, qualcosa di estemporaneo e onirico. Vorrei affrontare i demoni che abbiamo dentro, in maniera profonda, ma anche un po’ onirica; dico così perché vorrei fare fumetto diviso in due piani, uno sul piano della realtà e uno su quello della mente.
