Le sfilate della fashion week di Parigi, al suo sesto giorno, presentano abiti scultura che mettono in discussione il senso del prêt-à-porter.
Le presentazioni di settembre sono dedicate al prêt-à-porter o ready to wear, come dir si voglia. Si dovrebbe quindi trattare, secondo l’Oxford Languages, di abiti da donna confezionati in serie, in taglie standard. A guardare alcune sfilate di Parigi, invece, sembrerebbe tutto il contrario. Tra gli show della sesta giornata tante proposte di abiti più simili a sculture che indumenti. Vestiti pressoché importabili che fanno ragionare sulla divisione tra haute couture e ready to wear.
Sono i designer giapponesi, ormai da anni importati a Parigi, che trasformano le passerelle in teatri dell’assurdo. A farla da padrone è Rei Kawakubo di Comme des Garcones. La designer si pone, da sempre, con un approccio anti fashion. Indaga gli abiti come strutture che occupano uno spazio, anche ingombrante, e proteggono il corpo. Così in questa collezione la Kawakubo veste le sue donne come fossero oggetti del quotidiano. Cuscini, tappezzerie, tende, sacchi e coni protettivi diventano, inspiegabilmente, abiti al limite del reale.
“Credo che i vestiti anormali siano necessari nella nostra vita di tutti i giorni” spiega, invece, Junya Watanabe che porta l’upcycling a Parigi. Tessuti del quotidiano vengono impiegati nella realizzazione di forme insolite e, a tratti, incomprensibili.Una passerella futuristica quella di Watanabe che sembra catapultarci in un film di fantascienza. Dove uomo e tecnologia sono fusi irreversibilmente. E se si parla di abiti importabili, più simili alla couture che al prêt-à-porter, non si può non nominare Noir Key Ninomiya. La sua moda teatrale ed importabile conquista Parigi con un abito che si illumina nel buio della passerella.
A riportare ordine alla kermesse parigina è lo show di Hemes che, storicamente, vende borse e non abiti. Ma indossabile non vuol dire insignificante. A confermarlo sono le sfilate dell’Alexander McQueen di Seaan McGirr e dell’Ann Demeulemeester dell’italiano Stefano Gallici. Quello di McQueen è uno show ricco di citazioni. Rimandi più o meno palesi alla sfilata di McQueen del 1998 ispirata alla morte di Giovanna D’Arco. La citazione, da parte di Sean è meno spiccata, più dolce. Il fuoco della sfilata di Alexander si trasforma in fumo ai piedi delle modelle e l’armatura di Giovanna D’Arco diventa un sinuoso abito da sera metallico. Tanto contemporaneo quanto intramontabile e sconvolgente.
A stupire è lo show di Ann Demeulemeester disegnato dal giovane italiano Stefano Gallici. Una location industrial, drammatizzata da una cornice di fiori bianchi, sfila una moda che unisce grunge e roimanticismo. Gli abiti sono vissuti, lacerati, come se i modelli avessero preso parte ad un Rave Party. In questa atmosfera rock si stagliano eleganti dettagli in pizzo, colli a jabot e lunghe stringhe che toccano terra, firma Ann.Lascia con l’amaro in bocca, invece, la collezione di Vivienne Westwood disegnata da Andreas Kronthaler. Quasi irriconoscibile. O forse non ci siamo ancora abituati all’idea che di Vivienne non c’è più e che, geniale come lei, ne nasce una ogni 100 anni, se non di più.
Foto: Vogue