Eraldo Moretto – La Cesira: l’arte di saper portare in scena la propria anima

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44 anni di carriera. Eraldo Moretto, in arte La Cesira, attore, cabarettista e drag queen, ci racconta cosa significa essere “Un uomo a cui piace vestirsi da donna”. 

Una casalinga sconsolata, una segretaria che sogna il red carpet, una portinaia in cerca di un marito, tutto questo è La Cesira. Parrucconi, tacchi alti e paillette, ma dietro il travestimento c’è molto di più. Un’amica, una zia, La Cesira, che dopo tanti anni di sacrifici è riuscita a conquistare la nostra fiducia.

Da dove deriva il nome Cesira? Come lo hai scelto?

I primi tempi mi esibivo come Eraldo Moretto, poi, siccome ho iniziato a fare una trasmissione per Telereporter, dovevamo trovare un nome. Non volevo usare le solite Miss, Madame. Ho cercato qualcosa che non desse fastidio, perché il problema è sempre l’immagine. La gente non sempre è disposta ad ascoltare e capire. Cesira è un nome che ricorda un po’ i Legnanesi, ricorda la realtà milanese, è un nome rilassante, divertente, ma soprattutto che non incute paura. 

Come inizia la tua storia? So che, in qualche modo, è coinvolta la compagnia teatrale dialettale dei Legnanesi…

La storia inizia a Novara, in mezzo alle risaie, dove non c’era niente di niente. Un giorno, a casa di qualcuno, ho trovato un disco degli Legnanesi. Ho visto tutto questo fulgore, le luci, i costumi, ma non riuscivo a capire cosa fossero. Avrò avuto dieci anni. Così mi hanno spiegato che erano tutti uomini che si vestivano da donne, ed è lì che mi è scattata la curiosità. Non è tanto per il fatto di potersi vestire da donna, come scelta sessuale, io volevo proprio capire il mondo femminile, che mi aveva sempre affascinato. Volevo entrare in questo mondo. 

Quando ti sei trasferito a Milano, come sei riuscito ad entrare in questo ambiente?

Appena mi sono trasferito a Milano, a circa sedici anni, ho cercato subito di andare vedere i Legnanesi, e sono rimasto folgorato. Anche se, loro non erano famosissimi per la bellezza del trucco, erano solo uomini che si vestivano da donna. E io ho sempre mantenuto quella cosa: Un uomo che si veste da donna, con le proprie radici, con la propria personalità, ma sempre un uomo. Ho fatto tanto teatro, da Goldoni, Pirandello, ho interpretato, da uomo, molti personaggi. Non sono obbligato a presentarmi sempre vestito da donna.

Quindi, appena arrivato, sono andato in questo locale bellissimo, a livello di quelli parigini, si chiamava Rick’s Cabaret di via Fieno. Volevo entrarci, ma non sapevo come fare. Non avevo niente, se non le scenette dell’oratorio, oppure i testi rubati e rielaborati ai Legnanesi. Una sera sono arrivato là e ho detto “Guardi, io sono uno dei Legnanesi, se ha piacere, potrei fare degli spettacoli”, UNA BALLA ENORME! E dato che facevo una scenetta in cui raccontavo di un incidente d’auto, dove le protagoniste erano due, la Mabilia e la Teresa, ma io ero da solo, entravo in scena con una sedia e un registratore, dove avevo già registrato l’altra voce, e urlavo “AIUTOOOOOO ASSASSINOOO” e l’altra rispondeva dal registratore. 

Ho cominciato così. Da che dovevo stare due giorni, sono rimasto sei mesi. 

Hai anche partecipato a Zelig Gay per tanto tempo. Cosa ha significato per te questo format?

Zelig Gay era meraviglioso. Per crearlo abbiamo fatto una fatica immensa. 

Prima c’era già qualche serata queer a Zelig, con Micky la contessa, ma all’inizio, a noi, non ci volevano, perché eravamo i barzellettari, eravamo quelli che andavano nei “localacci”, nelle discoteche, non facevamo parte degli intellettuali. A Zelig c’erano Paolo Rossi e tutti questi mostri sacri. Quando siamo arrivati non sapevamo come fare e, insieme allo Zelig, abbiamo inventato Zelig Gay. È durato un sacco, undici anni. Si faceva all’una di notte, di venerdì sera. Avevamo la sala pienissima, e sempre la fila fuori. L’unico dispiacere che ho, è che Zelig, che dovrebbe essere la fucina delle idee e dei talenti, non ha mai pensato a farlo diventare un format televisivo. 

Undici anni e poi l’hanno fatto morire. 

Era una realtà diversa, Milano l’aveva accettata benissimo, venivano fiumane di persone a vedere, perché erano curiosi di vedere, non la bellezza, l’abito, la parrucca o i gioielli, ma l’anima, che io ho sempre cercato di portare in scena. L’anima di chi riesce a dare un messaggio di uguaglianza, a prescindere da queer o altro. Io sono un comico che per fare ridere, per sua scelta, si veste da donna, ed è onorato di fare questa cosa. 

Lo show delle Drag Queen per come lo conosciamo oggi, in cui siete agghindate con abiti appariscenti e scintillanti, un make-up estroso e dei super tacchi, è sempre stato così, fin dagli inizi, oppure si è evoluto ed è cambiato negli anni?

La Drag Queen, per anni, è stata equiparata a quella che sta fuori dal locale, a fare la ragazza immagine o sul cubo. Io ho lottato con le unghie e con i denti per far capire che dietro c’è una persona, che ha scelto di farlo. Infatti, in alcuni spettacoli che facciamo noi, tipo il Gran Gala Drag Queen, dove si vedono questi parrucconi, i vestiti, e altre cose bellissime, è solamente la parte finale dello spettacolo. Prima raccontiamo ciò che succede nel camerino: le liti, le gelosie, le ripicche, e, poi, cerchiamo di raccontare, con un’intervista, quello che loro hanno passato per arrivare a fare la Drag Queen. 

Hai deciso tu di creare questa struttura di spettacolo o è sempre così?

Si si assolutamente, l’ho pensato io.

È sempre facile giocare sulla volgarità, sul sesso, è la maniera più semplice di far ridere, però poi dopo devi anche concludere. In questi spettacoli alla fine c’è sempre una riflessione.

La gente vuole vedere uno spettacolo che apra la mente. Quarant’anni fa, quando mi presentavo nelle piazze, non bastava il bel vestito. In alcune manifestazioni mi hanno tirato di tutto, dal pollo, al fiasco di vino.

A proposito di immagine, nella vostra arte fa tanto l’apparenza, ma tutte sono in grado di far vedere che dietro c’è di più?

Ti faccio un esempio, ci piacerebbe fare un Open Mic Drag.. ma c’è qualcuna che parla? Qualcuna che sa dire una cosa sensata e non solo “Buonasera, benvenuti”, che lo fanno tutti. 

A parte tutto questo, poi? Io se pago un biglietto voglio emozionarmi, piangere. Per questo nei nostri spettacoli raccontiamo la loro vita, le loro difficoltà. La prima serata piangevano tutti, su e giù dal palco. Forse capivano che in casa sicuramente potevano avere anche loro un parente, un figlio, un nipote.

Ciò che fate può essere definita un’espressione artistica, vista la grande cura dei minimi dettagli che riponete nel trucco, nel look (vestito e acconciatura), nello studio dei movimenti del personaggio che interpretate. Che significato ha per voi, questa cura? Può essere vista come metafora della cura del vostro benessere interiore?

L’arte sconfina anche nel crearsi il personaggio. Alcune di loro hanno una manualità e un’inventiva nel creare queste cose meravigliose. Però siamo sempre sul fatto dell’immagine. 

La gente pensa sempre che lo facciamo perché ci sentiamo donne, e sicuramente ce ne sono tante, anche perfette, con tutti gli artefici. Io non ci ho mai tenuto, non me ne frega niente di far vedere quell’immagine, ma le ammiro, perché è veramente un’arte. Stanno ore a truccarsi, a riempirsi. Sono più piene di gommapiuma, di Poltronesofà.

I vestiti li realizzano loro?

Si, molte si.

Ho una curiosità… perché cantate in “playback”? 

Il playback sembra che riveli una assoluta incapacità di fare altro, invece il lip sync, si chiama così, è una parte fondamentale e centrale di una Drag. La bravura è quella di rubare un personaggio, portarlo in scena e cantare come se fossi lui. C’è un grande studio dietro. In America e in Inghilterra imparano a recitare e cantare davvero, perché là è considerato un genere di spettacolo; sono considerati artisti, cosa che da noi facciamo ancora tanta fatica. 

Tu hai mai cantato dal vivo?

Si io canto dal vivo, non sono Pavarotti, però so cantare e recitare. Non ho fatto scuole, ma prima di mettermi su un palco, ho frequentato tante piccole compagnie, spacciandomi per chiunque altro, che arrivava da chissà che scuola. Ho raccontato le più grandi balle della mia vita, che hanno funzionato e ho imparato, perché se ti metti in scena e pretendi che la gente ti ascolti, un messaggio lo devi dare.

Oggi sei ancora qui ad Area Zelig, sempre la stessa Cesira dei tempi di Zelig Gay. Ma cosa è cambiato?

Io ho preso più padronanza di quello che potrebbe dare la Cesira. Giravo molto per i villaggi, dove dovevo convincere le persone che non ero un “mostro”. Per esempio, mi sono trovato a fare spettacolo in Sardegna, in un villaggio molto piccolo. Sono uscito in minigonna e le donne con i bambini sono andati subito via. 

È stato lì che ho capito che la Cesira in tante situazioni ha dato una mano. Perché, in questi villaggi, dopo che ti conoscevano, ti invitavano a pranzo, ti confidavano tutti i loro peccati, i problemi che avevano in casa. Si sentivano a loro agio. La Cesira era diventata un’amica, non Eraldo, ma la Cesira. 

È bellissimo sapere che la gente si fida di te. Dopo tanti anni di sacrifici, viene a vederti chi ha creduto nel tuo progetto e si è fidato di te. Significa che sei maturato, sei arrivato a dare un messaggio diverso, che non sono più solo le barzellette. 

Il messaggio è sempre quello: non solo perché non devono spaventare le diversità, ci sono anche le persone diverse, che hanno tanto da raccontare. Provate a trattarle come persone normali. 

Nonostante il Pride stia prendendo piede in numerose città, e questo potrebbe essere un segnale di cambiamento, a seguito dei risultati delle recenti elezioni, credi che questo cambiamento stia avvenendo veramente? O è solo di facciata?

Io penso che le persone vogliono davvero un cambiamento. Il problema è che, tutti questi gruppi politici, a prescindere da destra, sinistra o centro, quando si sono formati, avranno avuto, sicuramente, delle idee, perché chi li ha inventati voleva raccontare qualcosa. E oggi ci siamo dimenticati che loro dovrebbero tutelare noi, che gli diamo il voto e li eleggiamo come rappresentanti. Non se lo ricorda più nessuno. Loro hanno la responsabilità di milioni di voti, e dovrebbero portare la loro voce, non la poltrona che rappresentano, invece è sempre il contrario. Una volta che sono arrivati, se ne dimenticano. Ma non solo nella politica, la colpa è generale. Perché l’Italia è fatta apposta per fottere il prossimo. Siamo tutti così, ma così non si va da nessuna parte. Quindi penso che la gente abbia perso un po’ la fiducia in queste cose. 

Quale percezione hanno di voi le generazioni giovani?

Manca l’informazione. Qui a Milano ci sono tante realtà che fanno questi spettacoli, ma non c’è l’informazione. Siamo al punto di partenza, non c’è la cultura in questo senso, non c’è nessuno che spinge; il nostro genere non viene mai equiparato agli altri. Quindi, i giovani non sono assolutamente informati. 

Il futuro è vostro, bisogna avere un po’ di reazione. 

Invece, rispetto al recente format che mettete in scena, Drag for Dogs, come è nata l’idea di coinvolgere i cani? Ho visto che lo spettacolo è in collaborazione con Guide Cinofile.

Me lo chiedo anche io, ancora oggi… (ride, ndr.) È nata perché abbiamo avuto il piacere di conoscere un cinofilo, “Alf il cinologo”, che ci ha spiegato il rapporto tra gli esseri umani e il cane. Il rispetto per l’animale non è trattarlo come un figlio, metterlo nel passeggino, mettergli i bigodini o fargli la tinta. Il cane deve fare l’animale. Come lui deve rispettare noi, e i cani lo fanno, l’essere umano non rispetta, così tanto, l’animale. Il fatto di volergli bene non vuol dire questo. Lui non capisce queste cose.  

Anche il rapporto con le Drag è lo stesso. Il messaggio di rispetto è verso tutti. Le persone ti possono capire, ma fino ad un certo punto.

Vorresti avere più visibilità tramite la tv oppure ritieni che essere il rappresentate di una nicchia sia più efficace rispetto a parlare ed un vasto pubblico che però spesso si rivela sordo rispetto a questo ambito?

Sto bene così. Certo, sarei non obiettivo a dire che non mi farebbe piacere fare un passaggio televisivo… forse non ho gli argomenti. Ma c’è anche un retro scena in questa cosa: l’autore dov’è? Era il dilemma di quando facevamo Zelig.

Lo Zelig non ci ha mai dato un passaggio televisivo, perché, per loro, non eravamo mai pronti. Ci avevano fatto preparare, con la coreografa, degli stacchetti tra un numero e l’altro, erano simpaticissimi. Avevamo creato delle coreografie una più bella dell’altra, ma non andava mai bene. In prima serata non potevamo andarci, mentre gli altri, con il culo di fuori, non davano fastidio… il culo della Drag si.

Ad un certo punto ho detto “Basta”. Non ho bisogno di niente, faccio quello che mi piace.

Poi, non tanto tempo fa, mi ha chiamata Canale 5, e ho pensato “Vuoi vedere che mi propongono qualcosa?” Mi hanno detto “So che lei fa il Rocky Horror allo Zelig, sempre pieno, molto seguito. Ecco, ci presterebbe il costume per Cirilli…” (Quando faceva il personaggio di Tatiana, ndr.). Doveva fare quello che facevo io. Quindi, gli ho risposto “Scusi, perché il mio culo è diverso da quello di Cirilli?”

Ospite al Pride di Milano di quest’anno, che si tiene oggi, 29 giugno 2024, La Cesira continua a portarci con sé nel suo meraviglioso mondo di tacchi e parrucche, ma ricordandoci sempre che dietro a tutto questo sberluccichio, il vero valore rimane l’anima interiore.

“Un cabarettista che ha scelto la libertà”.

La Cesira è presente, anche, alla mostra “NON VOLTARTI – Storie di quartiere”, by Alessandro Simonetti, presso Corso Venezia 75, Milano.