Moda e comunicazione: successi, insuccessi e risvolti sociali

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Qualche settimana fa, l’azienda Pandora è finita al centro di un piccolo caso mediatico: il celebre brand danese ha tappezzato i corridoi della metropolitana milanese con la campagna per il Natale 2017, campagna che non è però piaciuta a molte persone – moltissime, in verità.

Cosa recitavano i manifesti sotto accusa?

«Un ferro da stiro, un pigiama, un grembiule, un bracciale Pandora. Secondo te cosa la farebbe felice?»

La risposta dei passanti non si è fatta attendere e, dai corridoi della metropolitana meneghina, la protesta si è rapidamente spostata sui social network dove in tantissimi hanno additato la campagna come sessista e mortificante per il genere femminile poiché infarcitadi luoghi comuni.

Il brand ha replicato postando due note sulla pagina Facebook allo scopo di chiarire la propria posizione: l’idea– ha spiegato – era in realtà «quella di strizzare l’occhio ad alcuni stereotipi che tutte noi conosciamo in maniera ironica e giocosa, assolutamente non offensiva, con il desiderio di regalare un sorriso».

Accettando di mettersi in discussione, Pandora ha però ammesso che, nonostante le proprie buone intenzioni, il messaggio poteva dar luogo a malintesi: «in realtà abbiamo visto che estrapolati dal loro contesto alcuni passaggi di questa comunicazione hanno generato interpretazioni opposte al nostro intento», si legge ancora nella nota che si chiude con le parole «quindi ci scusiamo con tutte coloro che si sono sentite toccate nella loro sensibilità».

Le scuse presentate da Pandora non sono però bastate a calmare gli animi e l’opinione pubblica si è divisa su due fronti: da una parte, si è schierato chi ha visto in tutto ciò una polemica esagerata; dall’altra parte, invece, si è schierato chi ha continuato a sostenere che lo sdegno fosse più che legittimo e giustificato. Altri ancora hanno affermato che, in fondo, è inutile prendersela con Pandora poi ché la pubblicità italiana in generale non fa altro che rifletteree sottolineare la condizione della donna nel nostro Paese.

Chi ha ragione? Chi ha torto?

Difficile dirlo ma, sicuramente, in comunicazione vale un principio: una campagna che necessita di troppe spiegazioni equivale a un insuccesso e così la vicenda ha causato un piccolo terremoto che, in realtà, non sorprende coloro che si occupano quotidianamente di comunicazione e che dunque ben sanno quanto situazioni come questa possano essere costantemente in agguato, nonostante – ripetiamolo – le migliori intenzioni.

Ogni addetto o responsabile comunicazione è costantemente in stato di allerta nel momentodel lancio di una nuova campagna, soprattutto se si tratta di una campagna trasversale condivisa su tutti i media, dalla carta al web, dalla televisione alle affissioni stradali.

Il pericolo di equivoci e conseguenti polemiche è sempre esistito, ma il rischio è diventato esponenziale proprio con l’avvento dei social network che hanno dato la possibilità a tutti di esprimere la propria opinione in tempo reale: talvolta, il brusio del web diventa più potente e più virale della campagna pubblicitaria stessa e ogni scelta può contenere una certa percentuale di rischio, dalle parole ai testimonial, passando – naturalmente – per le immagini.

Ne sa qualcosa la maison Saint Laurent: nel 2015,una loro pubblicità fu proibita in quanto la modella protagonista della foto fu giudicata troppo magra.

La Advertising Standards Authority, l’agenzia indipendente che regola il mercato pubblicitario britannico, prese posizione con parole molto chiare: «the model appeared unhealthily underweight».

L’immagine in bianco e nero era apparsa nell’edizione inglese della rivista Elle: la modella, sdraiata per terra, indossava un abito corto che lasciava vedere gambe lunghissime e magrissime.

La maison francese contestò le accuse, naturalmente, ma la pubblicità fu infine ritirata poiché la posizione dell’ASA fu dura, lapidaria e irremovibile quanto lo furono le motivazioni a fronte del procedimento di censura: «the ad wasirresponsible».

È evidente come il modo di comunicare e pubblicizzare un brand e i suoi prodotti possa avere un impatto sociale anche molto forte: in tutto ciò, la moda in tutte le sue declinazioni – dal lusso al fast fashion, dagli accessori allo sportswear – haun ruolo da protagonista poiché esiste uno stretto legame proprio tra moda e società.

La moda è a tutti gli effetti un linguaggio e racconta gli umori, le tensioni, i cambiamenti della società in cui viviamo, influenzandola e venendone a sua volta influenzata: è un mezzo potente e i grandi comunicatori ne sono sempre stati ben consci.

Tra di essi, va ricordata Franca Sozzani della quale, proprio in questi giorni e precisamente il 22 dicembre, ricorre il primo anniversario dalla prematura scomparsa: per quasi tre decadi, dal 1988 fino ai suoi ultimi giorni, la celeberrima direttrice di Vogue Italia ha usato le pagine della rivista non solo per parlare di abiti, ma anche per iniettare messaggi ecologici e sociali nella fotografia di moda.

Resta indimenticabile l’editoriale con la top model Linda Evangelista posseduta dai demoni della chirurgia estetica come anche il Black Issue, il numero datato luglio 2008 con modelle e celebrità unite dal colore della pelle: quello della direttrice fu un atto di sensibilizzazione rivolto all’opinione pubblica in merito allo scarso numero di modelle di colore rispetto alle colleghe di pelle chiara.

Franca Sozzani ha decisamente dato il proprio contributo nel rivoluzionarela comunicazione visivain ambito moda, mandando un messaggio forte e chiaro: la moda permette di puntare il riflettore sulle questioni sociali.

La sua visione è stata – edè – ampiamente condivisa da molti brand, come per esempio Benetton.

La collaborazione tra il brand e il celebre fotografo Oliviero Toscaniha sancito l’inserimento delle campagne Benetton in testi universitari e ambiti museali e ha prodotto alcune delle immagini più famose nel mondo della pubblicità tra gli Anni Ottanta e gli Anni Novanta: le collezioni del brand veneto sono state letteralmente usate per attirare l’attenzione su temi sociali quali il razzismo, la povertà, l’AIDS, la pena di morte.

Le immagini forti e l’irriverenza di alcuni scatti hanno fatto talvolta discutere, scandalizzando e creando polemiche, dando vita a ciò che viene definito shockvertising: il termine anglosassone nasce dalla fusione delle parole shock (letteralmente urto, scossa) e advertising (pubblicità) ed è impiegato per definire quelle campagne in grado di creare un impatto emotivo importante.

Oggi, dopo molti anni, Toscani torna a firmarele campagne Benetton con due fotografie che affrontano il tema dell’integrazione.

«Il problema del mondo attuale è l’integrazione – dichiara Toscani – e il futuro si giocherà su quanto e come sapremo usare la nostra intelligenza per integrare il diverso, superando le paure.»

Le due immagini – una che ritrae una classe di bambini sorridenti di 13 nazionalità da 4  continenti e l’altra di un gruppo di bimbi anch’essi di tante nazionalità riuniti attorno a una maestra che legge Pinocchio – sonole prime di un progetto più ampio sul tema dell’integrazione che Toscani porterà avanti attraverso Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione del gruppo Benetton.

Ma il tema della diversità e dell’integrazione è caro anche ad altre aziende.

La pattinatrice sul ghiaccio Zahra Lari è uno dei volti della campagna con la quale Nike presenta il suo primo hijab (il velo o foulard che copre i capelli e il collo delle donne musulmane lasciando scoperto il viso) in versione sportiva.

L’atleta rappresenterà gli Emirati Arabi durante i prossimi giochi olimpici invernali: oltre a fungere da testimonial, ha collaborato con il brand allo sviluppo del Nike Pro Hijab.

«Unohijab sportivo ideale deve essere leggero, traspirante e stabile perché mi muovo molto velocemente sul ghiaccio e non posso usare le mie mani per sistemarlo», ha spiegato Zahra Lari: la sua immagine contribuirà senza dubbio a far parlare di integrazione e Nike avrà un ruolo di primo piano nella discussione.

Nike è infatti il primo brand di caratura mondiale a produrre hijab sportivi: non si tratta certo di un’invenzione visto che i veli sportivi esistevano già, ma finora erano stati prodotti da aziende piccole e spesso locali.

Il lancio conferma l’interesseverso i mercati emergenti islamici, ma è anche una dichiarazione sociale forte: Nike si è infatti sempre schierata a favore dell’inclusione culturale nello sport convarie campagne e progetti.

Le reazioni del pubblico sono state di vario tipo: molti hanno apprezzato il prodotto e la campagna basata sul concetto di empowerment e self-confidence delle donne sportive di fede islamica e la rivista americana Time ha inserito il Nike Pro Hijabnelle 25 invenzioni importanti del 2017.

Naturalmente, non sono mancate né mancheranno opinioni diametralmente opposte così come qualche accusa, per esempio quella di indebita appropriazione culturale – ma questa è un’altra storia che magari vi racconterò in una futura occasione.

E per chiudere questo viaggio, oggi, uso una citazione.

«Le parole sono importanti»: così affermava il protagonista in una scena celebre del film Palombella rossa, diretto e interpretato da Nanni Moretti.

Potremmo aggiungere che le immagini lo sono altrettanto e che oggi, nell’era della comunicazione globale, parole e immagini devono necessariamente lavorare insieme, con coerenza e chiarezza, senza offendere né aggredire.

È una missione impegnativa, ma solo così è possibile far sì che il riflettore che la moda rappresenta possa diffondere una luce utile e, dunque,positiva.

Emanuela Pirré

Le fotodella campagna Benetton provengono dalla pagina Facebookdel brand https://www.facebook.com/BenettonItalia/

La foto della pattinatrice sul ghiaccio Zahra Lari con il Nike Pro Hijab proviene dal sito Nike Newshttps://news.nike.com/news/nike-pro-hijab