Oriana Fallaci in passerella, ma armata di taccuino

da | FASHION

La moda sotto interrogatorio, il potere sul banco degli imputati

Oriana Fallaci non amava la moda.
Non la amava davvero, non la rispettava come sistema, e soprattutto non ha mai fatto finta di capirla per compiacere qualcuno. Quando tra il 1955 e il 1966 attraversava le sale ovattate degli atelier parigini per L’Europeo, non lo faceva come una cronista mondana in cerca di dettagli frivoli. Entrava come si entra in una zona occupata: osservando tutto, fidandosi di poco, pronta a fare domande scomode.

Il suo taccuino non era un accessorio. Era una lama.

La domanda che la accompagnava era sempre la stessa, insistente, quasi ossessiva:
chi decide cosa devono essere le donne?
E soprattutto: perché a decidere, quasi sempre, sono uomini che le donne le osservano, le vestono, le immaginano, ma raramente le ascoltano?

Le interviste oggi raccolte in Processo alla minigonna nascono da qui. Non come cronaca di costume, non come racconto patinato di un mondo elegante, ma come una serie di interrogatori a porte aperte. La moda è il pretesto. Il bersaglio è il potere.
Perché dietro ogni abito c’è una visione del mondo. Dietro ogni silhouette, una gerarchia sociale. E dietro ogni tendenza, qualcuno che comanda e qualcuno che obbedisce.

La minigonna, in fondo, è solo l’imputata più visibile.

Dior, Chanel, Saint Laurent: lo stile incontra l’autorità

Il primo a sedersi idealmente sul banco degli imputati è Christian Dior. Oriana Fallaci lo definisce senza ironia “l’uomo del secolo”, ma non c’è venerazione nelle sue parole. C’è curiosità chirurgica. Dior parla delle donne come se fossero una missione, una vocazione assoluta. Le descrive come muse, come ossessione creativa. Poi, quasi distrattamente, confessa che una volta tornato a casa preferisce non vederne nemmeno una.

La Fallaci non alza la voce. Non commenta. Annotare basta.
Il colpo arriva dopo, quando il lettore capisce: le donne come idea, mai come presenza. Ispirazione sì, confronto no. È qui che la moda smette di sembrare innocente.

Con Coco Chanel il duello è più raffinato. Due intelligenze affilate, due caratteri che non concedono terreno. Chanel ha liberato il corpo femminile, lo ha strappato ai busti e alle costrizioni, ma resta una sovrana assoluta. Decide, comanda, detta legge.
La Fallaci la osserva come si osserva una regina senza corona, e registra il grande paradosso del Novecento: anche quando la moda emancipa, qualcuno continua a esercitare il potere dall’alto.

Yves Saint Laurent rappresenta la generazione nuova, fragile e geniale, il talento che sembra voler rompere tutto. Ma nemmeno lui viene assolto. La Fallaci non si lascia incantare dalla giovinezza, dall’aura romantica del creativo tormentato. Incide, domanda, scava. E mette a nudo un sistema che si proclama rivoluzionario ma resta organizzato secondo gerarchie rigidissime, dove la libertà è spesso una promessa più che una realtà.

La minigonna: pochi centimetri, un terremoto

Il centro simbolico del libro è l’incontro con Mary Quant, la donna che ha accorciato l’orlo e allungato il conflitto. La minigonna, racconta Quant, non nasce per scandalizzare ma per semplificare: è pratica, giovane, leggera. È fatta per muoversi, non per essere contemplata.

Ma Oriana Fallaci non si ferma alla superficie. Sa che nessun gesto pubblico è mai davvero neutro.
Così l’intervista diventa un dibattito feroce sul potere delle immagini, sul desiderio collettivo, sul ribaltamento delle classi sociali. Per la prima volta sono le ragazze comuni a influenzare le aristocratiche, non il contrario. È una rivoluzione silenziosa, ma irreversibile.

Qui il “processo” cambia scala: non si parla più di moda, ma di società. Non di centimetri, ma di controllo. Chi decide cosa è desiderabile? Chi stabilisce cosa è accettabile? E perché il corpo femminile continua a essere il campo di battaglia su cui si combattono tutte le guerre culturali?

La moda come Parlamento invisibile

C’è un dettaglio, apparentemente marginale, che dice tutto. Emilio Pucci non si limita alle passerelle: entra in Parlamento. È una frase che pesa più di molte teorie.
La moda non è ornamento. È linguaggio politico. Governa simboli, comportamenti, identità.
La Fallaci lo aveva capito prima che diventasse evidente, prima che i brand si trasformassero in religioni civili e gli stilisti in figure di potere globale.

Rileggere oggi Processo alla minigonna significa accorgersi che non è un libro sul passato. È un manuale di disincanto per il presente. La Fallaci non chiede mai cosa va di moda. Chiede sempre: a chi conviene?

Un filo teso fino a noi

Non è un caso che la nuova edizione si apra con la prefazione di Maria Grazia Chiuri. È come se quel filo – teso, mai spezzato – tra moda e società venisse riannodato. Oriana Fallaci osservava un mondo che cambiava. Noi viviamo dentro le sue conseguenze.

Alla fine resta una certezza: Oriana non racconta la moda, la attraversa. Entra negli atelier come nei palazzi del potere, ascolta con attenzione e annota ciò che stona. Non giudica i vestiti. Giudica le idee che li sostengono.

Processo alla minigonna è il ritratto di un’Europa che si guarda allo specchio di una vetrina e comincia a non riconoscersi più. Gli orli si accorciano e si allungano, le tendenze passano, gli hashtag cambiano.
Ma le domande restano. Affilate come spilli.

Chi disegna chi?
E chi decide, davvero, come dobbiamo apparire per essere accettati?

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