Social e sovraesposizione: il silenzio come atto di sovversione

da | LIFESTYLE

In un’epoca dominata dall’urgenza di mostrarsi, il silenzio sui social non è più fuga, ma atto di ribellione. Tra sovraesposizione e caos comunicativo, riscoprire il valore del non detto diventa l’ultimo gesto di libertà autentica

Social e sovraesposizione: il prezzo di un’esistenza in vetrina  

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Diego Dalla Palma ha deciso di allontanarsi dai social. Non è una notizia, non dovrebbe esserlo. Ma lo diventa in un’epoca in cui la sparizione è un gesto radicale, quasi rivoluzionario. E non per ciò che rappresenta lui, ma per ciò che siamo diventati noi.

La tirannia del social

Viviamo sommersi da una sovraesposizione compulsiva, un vociare continuo che confonde l’esistenza con la presenza, la comunicazione con l’esibizione. È l’epoca del “posto, dunque sono”, dove ogni parola è dettata dall’urgenza di esserci, di dimostrare, di essere percepiti. In un eterno presente che non prevede silenzi, sfumature, né profondità.

Bla bla sociali: quando il linguaggio diventa rumore  

Oggi, sparire dai social non è più una distrazione poetica o un atto di snobbismo. È un rifiuto consapevole del meccanismo che ci imprigiona. È la volontà, chiara e netta, di uscire da un sistema dove la voce più forte non è la più giusta, ma solo la più urlata. “Le chiacchiere sono un tragitto fatto di gradini scivolosi”, dice Dalla Palma. Un’immagine spietata, che sintetizza la vertigine dell’inutile, la stanchezza del confronto sterile, l’impotenza di fronte all’aggressione continua delle opinioni.

La civiltà del narcisismo comunicativo  

Viviamo immersi nei “bla bla”, nel continuo rivendicare, reagire, ribadire. Ma a che serve tutto questo parlare se il linguaggio stesso è svuotato? Se ogni parola è già satura di rumore, se la libertà d’espressione è ormai confusa con il bisogno patologico di affermarsi a ogni costo?

I social non sono il problema. Sono il sintomo. Di una civiltà smarrita, affetta da un narcisismo febbrile, dove tutto si trasforma in narrazione, branding, estetica. Persino il dolore. Persino la morte. Persino l’amore. Abbiamo dimenticato il valore del pensiero che matura in silenzio, della parola che arriva dopo l’ascolto. Abbiamo disimparato a stare con noi stessi, nel vuoto fertile del tempo non riempito.

Il silenzio come antidoto sociale

Perché quel “non ho mai provato tanta serenità” non è un addio struggente, ma un atto politico. Un gesto che diventa dichiarazione d’intenti, presa di posizione contro una civiltà fondata sul rumore, sull’apparenza e sull’inarrestabile bulimia comunicativa.

L’aspetto più disarmante del discorso non è la rinuncia alla visibilità, è il disincanto. L’abbandono dolce ma risoluto del desiderio di partecipare. Una sorta di “non ci gioco più”, ma detto con la grazia di chi ha guardato a lungo, ha ascoltato, e ha deciso di non voler più far parte del gioco. Perché? Perché “l’asilo infantile delle paure altrui” ha stancato. Perché la rabbia permanente ha trasformato il confronto in rissa. Perché il caos comunicativo, che un tempo sembrava progresso, è diventato entropia.

Dalla cittadinanza all’utente consumatore  

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Non siamo più cittadini: siamo utenti. Consumatori e fornitori di contenuti in un unico gesto. Ogni pensiero deve diventare “posizionamento”, ogni opinione una dichiarazione di guerra. Siamo nella società del dibattito permanente, dove esprimersi non è più un diritto, ma un obbligo. Dove chi tace non è rispettato: è colpevole. Chi si isola è sospetto. Chi si chiama fuori, un disertore.

Il diritto di tacere e la colpevolizzazione del silenzio  

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E se la vera libertà oggi fosse scegliere di non esserci? E se il vero privilegio fosse sottrarsi, restituire il tempo a sé stessi, agli altri, al mondo reale?

Chi oggi sceglie il silenzio non scappa. Resiste. Si libera. E forse, in quel silenzio, ritrova qualcosa che noi abbiamo perso: la verità. O almeno il desiderio di cercarla, senza doverla spiegare a tutti.

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