Il 5 novembre, tra storia, tradizione e la libertà che ancora arde sotto la cenere
“Remember, remember the fifth of November, gunpowder treason and plot.”
Così inizia la filastrocca inglese, e da più di quattro secoli continua a risuonare come un monito, come un battito antico che attraversa la storia.
Ogni anno, quando Londra si accende di fuoco e fumo, quelle parole tornano vive, e con loro il fantasma di un uomo, di un’epoca, di un gesto rimasto sospeso tra fede e follia.

Il complotto che diventò rito
Era il 1605 quando Guy Fawkes e i suoi compagni pensarono di rovesciare il potere con la polvere da sparo.
Volevano distruggere il Parlamento, mettere fine a un regno che li aveva perseguitati per la loro fede cattolica. Non ci riuscirono.
Scoperti, torturati, giustiziati. Eppure, come spesso accade alle sconfitte più radicali, la loro storia sopravvisse.
Il 5 novembre divenne giorno di memoria collettiva, la Bonfire Night, la notte dei falò.
Da allora, ogni anno, gli inglesi bruciano un effigie di Fawkes, tra canti e fuochi d’artificio.
È la loro festa più antica, e forse la più ambigua: una condanna che diventa celebrazione, un fallimento che si trasforma in leggenda.
Sotto i cieli di Londra, tra il fumo e il profumo di legna bruciata, si ha l’impressione che la storia continui a respirare.
Che la memoria, per gli inglesi, sia una fiamma da custodire più che un libro da sfogliare.



Londra, la città che sa ricordare
In nessun luogo come a Londra la memoria convive con il presente.
Tra le facciate vittoriane e i grattacieli di vetro, ogni cosa sembra dire: non dimenticare, ma continua a vivere.
La notte del 5 novembre, i giardini si popolano di voci, i bambini reggono le fiaccole come piccoli guardiani del passato, e le famiglie si stringono attorno ai falò.
È una notte di fuoco e di dolcezza, dove la paura diventa luce.
C’è, in questo rito, la grazia stoica di un popolo che sa trasformare la ferita in racconto.
L’Inghilterra ha sempre avuto il dono raro di addomesticare la tragedia, di renderla parte della propria identità senza teatralità né clamore.
Caprarica lo direbbe con la sua ironia elegante: “Gli inglesi sono capaci di commemorare anche un fallimento, purché sia decoroso.”
Ed è forse questa la loro più grande forza culturale — la capacità di non fuggire dalla memoria, ma di invitarla a cena ogni anno, con tè caldo e fiamme che scaldano più dell’orgoglio.

Dalla polvere da sparo alla maschera
Eppure il 5 novembre non appartiene più solo ai manuali di storia. Nel nostro tempo, il volto di Guy Fawkes è tornato a vivere dietro una maschera bianca, sorridente, ambigua. È diventato il simbolo di ogni protesta, di ogni voce che si oppone al potere invisibile.
Dai fumetti di V for Vendetta ai movimenti anonimi della rete, quella maschera ha attraversato oceani e generazioni.
Ha perso il suo corpo, ma non il suo significato: ricorda che la ribellione non muore, cambia forma. E forse è qui che la storia del 5 novembre ci tocca più da vicino. Perché, dietro ogni rivoluzione — fallita o riuscita —, resta la stessa domanda:
fino a dove siamo disposti ad arrivare per difendere la nostra libertà di pensare, di dissentire, di dire “no”?



Il fuoco come coscienza
Il fuoco è sempre metafora di verità, di passione, di disobbedienza necessaria. E in fondo, la Guy Fawkes Night è proprio questo: un modo per ricordare che ogni società ha bisogno dei suoi incendi simbolici, delle sue piccole ribellioni domestiche per restare viva.
“Remember, remember…” non è soltanto una filastrocca per bambini. È una preghiera laica, un invito personale. Ricorda chi sei, da dove vieni, cosa credi. Ricorda che la libertà non è mai data una volta per tutte, ma va difesa ogni giorno, con la voce, con il pensiero, con il coraggio di restare in piedi quando tutti si inginocchiano.

L’eco del fuoco
Quando le ultime scintille si spengono e la città torna a sprofondare nella sua pioggia leggera,
nell’aria resta un odore di fumo e malinconia.
È il profumo della memoria, ciò che rimane quando tutto sembra dissolversi.
Il 5 novembre non appartiene più soltanto all’Inghilterra. Appartiene a chiunque creda che ricordare sia un atto politico e poetico insieme.
Perché il fuoco, come la libertà, vive solo se qualcuno ha il coraggio di alimentarlo. Ma c’è un’ombra sottile, oggi, che si posa su quella fiamma.
La maschera di V for Vendetta, divenuta simbolo di protesta e di rivolta, ha attraversato oceani e schermi, perdendo a volte il suo peso e la sua verità. Quel volto impassibile, nato per gridare contro l’oppressione e l’ipocrisia, è stato assorbito dal mercato, stampato in serie, venduto nelle vetrine del consumismo che avrebbe dovuto combattere. È diventato un’icona pop, un travestimento più che una dichiarazione. E in questo paradosso — così moderno, così nostro — la ribellione si è fatta estetica, e la libertà, immagine.

Non è più la maschera di chi rischia la vita per un’idea, ma quella di chi cerca appartenenza, o forse solo visibilità.
Eppure, anche in questa metamorfosi, rimane qualcosa di autentico: la traccia di un desiderio antico, quello di dire no, di ricordare che il potere non è mai invincibile. La maschera ha perso il suo silenzio sacro, ma non il suo sguardo.
Ci osserva ancora, con quel sorriso ambiguo che sembra chiedere: “Tu, oggi, cosa sei disposto a bruciare per la tua libertà?” E allora sì, remember, remember. Non per Guy Fawkes, non per il gesto mancato o per la leggenda.
Ricordiamo perché il simbolo non diventi solo merce, perché la memoria non si riduca a immagine. Perché ogni volta che un popolo dimentica, la notte si fa più buia — e la libertà, come una brace, aspetta solo un soffio per tornare a brillare.
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