Viaggiare ovunque, sempre, a tutti i costi. Così l’eccesso di turismo rischia di svuotare i luoghi del loro significato, trasformando l’autenticità in spettacolo
Il fenomeno dell’overtourism — letteralmente “turismo eccessivo” — è ormai una realtà ben nota, diffusa ovunque e senza confini geografici. Chiunque abbia viaggiato negli ultimi anni lo avrà percepito con chiarezza. In alcune città o in prossimità di attrazioni molto popolari, l’afflusso di visitatori è diventato tanto intenso da risultare quasi ingestibile. Il turismo, da esperienza arricchente, rischia così di trasformarsi in un sovraffollamento che compromette non solo la qualità del viaggio, ma anche e soprattutto la vivibilità dei luoghi. Il proverbiale “troppo stroppia” calza a pennello. Troppi turisti possono rovinare l’esperienza, svuotandola di autenticità. Ma il danno maggiore ricade spesso sulle comunità locali.
L’impatto dell’overtourism può arrivare a modificare profondamente l’identità di un territorio, snaturandone cultura, abitudini e quotidianità. In molti casi, ciò che rendeva unico un luogo viene sacrificato sull’altare della quantità.
Un fenomeno tutt’altro che improvviso

Se volessimo partire da una definizione ufficiale, l’Organizzazione Mondiale del Turismo descrive l’overtourism come “l’impatto del turismo su una destinazione, o su parti di essa, che influenza eccessivamente e in modo negativo la qualità della vita percepita dai cittadini e/o la qualità dell’esperienza dei visitatori”. Contrariamente a quanto molti pensano, l’overtourism non è esploso all’improvviso quest’anno. Già nel 2018, infatti, Oxford inseriva il termine tra le parole dell’anno, segno che il problema era sotto gli occhi di chi sapeva osservare. E allora, perché oggi se ne parla così tanto? È davvero peggiorato tutto, oppure sono semplicemente diventati più visibili il disagio e l’insofferenza delle comunità locali nei confronti di un certo tipo di turismo?
Durante la pandemia, in molti avevano sperato in una sorta di “reset”. La sospensione forzata dei viaggi sembrava l’occasione per ripensare i modelli turistici, per dare spazio a una nuova visione, più equilibrata e sostenibile. Ma quella pausa si è rivelata breve. Il ritorno alla normalità è stato rapido e travolgente. Inizialmente si è parlato di revenge tourism – il desiderio irrefrenabile di tornare a viaggiare dopo le restrizioni – ma ben presto è apparso chiaro che il fenomeno aveva preso una velocità inaspettata. Il turismo ha ricominciato a crescere a ritmi tali da superare ogni previsione, assumendo dimensioni che nessuno si sarebbe immaginato così presto.
Diritto al viaggio o consumo del mondo?

Facendo un passo indietro, il turismo nasce come espressione di un diritto conquistato: quello delle ferie, sudate dopo un anno di lavoro. Un premio atteso, desiderato, che con il tempo si è trasformato in un vero e proprio bisogno, alimentato da una serie di accelerazioni sociali, culturali ed economiche. L’arrivo dei voli low cost ha rappresentato una svolta epocale. Viaggiare è diventato alla portata di molti. A questo si è aggiunta una riorganizzazione delle priorità personali. Sempre più persone sono disposte a rinunciare a tutto, tranne che alla propria vacanza. In alcuni casi, anche a costo di indebitarsi. Così, oggi, molte destinazioni si trovano a fare i conti con le conseguenze a lungo termine di questa “possibilità diffusa” di viaggiare.
E in questo scenario non possono mancare i protagonisti più recenti: i social network. Piattaforme che, nel loro costante “mostrare tutto a tutti”, hanno trasformato il viaggio in uno status symbol, alimentando quello che è ormai noto come effetto Instagram. Una manciata di luoghi iconici diventa oggetto di una rappresentazione stereotipata e massificata, dove conta solo lo scatto perfetto da condividere. Questi hotspot turistici vengono così fagocitati da un turismo che consuma più di quanto valorizzi. Si parla di estrattivismo turistico: un modello che sfrutta le destinazioni come risorse da esaurire, mettendo da parte il loro valore culturale, umano, ambientale. Alla fine, l’overtourism non è altro che lo specchio fedele di una società ultra-consumistica. Ma dove finisce la valorizzazione e dove comincia la mercificazione? Come si può tracciare un confine, sottile e spesso scivoloso, tra i benefici che il turismo può portare a un territorio e i danni irreversibili che può causare se lasciato senza controllo?
Risposte globali a un fenomeno senza confini
L’overtourism non conosce geografie. È un fenomeno trasversale, che si manifesta con forza in ogni angolo del mondo. Tuttavia, le risposte adottate dai diversi paesi per contrastarlo sono molto diverse tra loro e, in certi casi, radicali. A Barcellona e Palma di Maiorca, migliaia di persone scendono in piazza con striscioni che recitano “Less tourism, more life”. Manifestano lungo la Rambla, simbolo di un modello turistico diventato insostenibile. In Grecia, sono i cittadini stessi a farsi sentinelle: perlustrano le spiagge e denunciano chi occupa abusivamente il suolo pubblico.

Anche in Italia il dibattito è acceso, e non riguarda solo le note Venezia o Cinque Terre. Altre città stanno affrontando pressioni crescenti, tra cui Capri, Bolzano, Roma, Firenze e Napoli. Capri, in particolare, detiene un triste primato: è la località con il più alto indice di densità turistica d’Italia. Ogni tre ore sbarcano circa 12.000 persone, per un totale di oltre 50.000 turisti al giorno. Ogni giorno. Un rapido giro, uno sguardo ai Faraglioni, un gelato, tanti selfie e poi via. A Venezia, l’introduzione del biglietto d’ingresso per accedere al centro storico non ha avuto gli effetti sperati. Cinque euro non bastano certo a scoraggiare chi ha attraversato mezzo mondo per vedere una delle città italiane più iconiche. C’è poi chi, esasperato, ricorre a soluzioni fai-da-te. È il caso di Notting Hill, a Londra, dove alcuni residenti hanno iniziato a dipingere le facciate delle proprie case di nero. Un gesto simbolico ma deciso, pensato per scoraggiare turisti e influencer attirati dalle famose abitazioni vittoriane dai colori pastello, rese ancora più celebri dal film Notting Hill con Hugh Grant e Julia Roberts.
Il prezzo dell’overturism

L’overtourism, oggi, non è più soltanto una questione di numeri. È diventato un problema di spazio, di tempo, di identità e, soprattutto, di convivenza. Il turismo di massa, per quanto si cerchi di minimizzarne l’impatto, produce trasformazioni evidenti. Le destinazioni finiscono per assomigliarsi tutte. Le botteghe storiche scompaiono, rimpiazzate da negozi di souvenir o catene internazionali. L’autenticità, invece di essere vissuta, viene ricreata ad arte per soddisfare le aspettative del visitatore. Tutto si piega alla logica dell’intrattenimento e del profitto, e così la Disneyficazione è sempre dietro l’angolo.
Sembra che i territori debbano soltanto subire il turismo, ma in realtà ciascuno di essi ha una propria identità, una propria specificità, e soprattutto delle fragilità che andrebbero protette, non sfruttate. L’erosione del suolo, la perdita di biodiversità, l’impennata dei prezzi per i residenti sono tutte conseguenze, come la trasformazione della vita quotidiana in uno spettacolo per occhi esterni.
Come fermare tutto questo?
Alcune misure sono state introdotte, è vero, ma spesso si rivelano timide, inefficaci di fronte alla velocità e alla voracità con cui l’overtourism consuma città e territori. C’è chi sostiene che non bastino. E allora la domanda è inevitabile: cosa dobbiamo davvero auspicare? Quali strumenti, visioni o coraggio servono per salvaguardare luoghi che rischiano di perdere la loro anima?
Forse la risposta sta nel ripensare il nostro modo di viaggiare. Non meno turismo, ma un turismo diverso. Meno consumo, più consapevolezza. Meno immagini da cartolina, più ascolto dei luoghi e di chi li vive ogni giorno.
Foto: Pinterest