Tra protezionismo e nuove strategie produttive, i dazi imposti da Washington riaccendono i riflettori sulla manifattura americana e offrono ai brand locali l’occasione di riscrivere le regole della moda globale.
Le recenti tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina stanno ridefinendo l’equilibrio del settore moda globale. Quando il presidente Donald Trump ha annunciato una nuova ondata di dazi doganali, molti nel settore hanno visto l’iniziativa come un terremoto. Tuttavia, per aziende come American Giant, che da anni investono nella produzione interna, questa potrebbe rappresentare un’opportunità più che un ostacolo.
Fondata da Bayard Winthrop, American Giant è una realtà americana che realizza capi essenziali — come felpe, t-shirt e pantaloni sportivi — esclusivamente in stabilimenti statunitensi, compreso il proprio impianto in North Carolina. Secondo Winthrop, le misure protezionistiche sono una risposta tardiva, ma necessaria, a decenni di globalizzazione sfrenata che hanno penalizzato l’industria manifatturiera locale. Pur riconoscendo gli effetti destabilizzanti a breve termine, l’imprenditore afferma che proprio queste dinamiche hanno motivato la nascita del suo marchio.


Dazi: un’ occasione per il made in USA
Per alcuni marchi che già producono sul territorio nazionale, i dazi rappresentano un’opportunità per rafforzare la propria posizione. La strategia dell’amministrazione Trump punta a incentivare il ritorno della produzione negli Stati Uniti, dopo anni di delocalizzazione motivata dalla ricerca di costi inferiori all’estero. Sebbene i dazi più elevati siano stati momentaneamente sospesi, quelli sui prodotti cinesi restano superiori al 100%.
Questo scenario rende più competitivo il prodotto americano, anche se non completamente immune. Chi importa materie prime da altri Paesi resta comunque esposto. Tuttavia, la possibilità di evitare aumenti drastici di prezzo e di raccontare una filiera produttiva interamente domestica diventa un vantaggio strategico — sia a livello commerciale che comunicativo.
Ma non tutto è rose e fiori. I consumatori, spaventati da un clima economico incerto, potrebbero comunque frenare gli acquisti. E sul fronte estero, i marchi americani subiscono il contraccolpo di contromisure tariffarie. Bleusalt, un’azienda di maglieria californiana, ha già registrato un crollo del 50% delle vendite in Canada, dove i clienti sembrano preferire brand locali per evitare rincari.
In questo contesto delicato, i marchi americani devono evitare di essere percepiti come sostenitori delle politiche più controverse dell’amministrazione. L’esempio di Target è emblematico: dopo il ridimensionamento del proprio programma DEI (diversity, equity, inclusion), in linea con la direzione politica dell’attuale governo, ha subito un calo di traffico clienti per dieci settimane consecutive.
Comunicare il valore della produzione locale
Per conquistare il consumatore americano senza entrare nel dibattito politico, i brand “Made in USA” stanno puntando su narrazioni autentiche. Filson, ad esempio, ha lanciato visite guidate nella propria fabbrica a Seattle, integrata con il negozio principale, per mostrare dal vivo il processo di produzione dei propri capi in lana e cotone cerato. Altri, come At Present, mettono in risalto gli artigiani che realizzano i gioielli venduti online, trasformando il prodotto in una storia da raccontare.
La possibilità di produrre localmente offre anche vantaggi pratici: è possibile gestire micro-produzioni, testare il mercato e scalare in base alla domanda reale, evitando sprechi e scorte eccessive. Filson, ad esempio, ha riattivato uno stabilimento a Seattle e prevede di triplicare entro l’anno i modelli realizzati lì.

Una collaborazione strategica
Marchi come Ghurka, noti per le borse in pelle di alta gamma, hanno già spostato parte della produzione (come gli astucci per vino) da fabbriche italiane a impianti nello stato di New York. Questo consente loro un maggiore controllo sulla qualità e una riduzione dei costi logistici. Tuttavia, come precisato dal presidente Robert Williams, il rientro completo della produzione non è ancora all’orizzonte: la cautela resta alta.
Alcuni brand locali stanno persino collaborando con giganti del retail. American Giant ha lanciato una linea di t-shirt in cotone americano a 13 dollari per Walmart, e sta lavorando con un’altra grande realtà americana per una collezione simile. L’obiettivo? Diffondere il modello di produzione nazionale, senza cadere nella trappola ideologica.
Il lusso francese corre ai ripari
Anche i grandi nomi del lusso internazionale stanno adattando le proprie politiche ai nuovi equilibri. Hermès, uno dei simboli della moda francese, ha annunciato un aumento dei prezzi negli Stati Uniti a partire da maggio. L’obiettivo è compensare l’impatto delle nuove tariffe del 10% imposte dalla Casa Bianca.
Secondo il direttore finanziario del gruppo, il rincaro riguarderà esclusivamente il mercato statunitense, dove si concentrano gli effetti delle misure doganali. Mentre le regioni europee e asiatiche manterranno i prezzi invariati, gli acquirenti americani dovranno affrontare aumenti su prodotti come borse Birkin, Kelly, gioielli e profumi. Il marchio, che ha recentemente superato LVMH per capitalizzazione di mercato, punta così a difendere i propri margini senza perdere slancio competitivo.
Ma l’impatto delle politiche protezionistiche non si ferma all’alta moda. Anche beni di uso quotidiano come elettronica, abbigliamento e perfino il mercato immobiliare stanno registrando rincari. La complessa rete globale della moda si mostra oggi vulnerabile alle scosse politiche e commerciali, mettendo in discussione anni di approcci votati esclusivamente all’efficienza e al costo.

Intanto su TikTok…
Mentre il dibattito sui dazi accende il dibattito politico, un’altra battaglia si gioca nel digitale. TikTok, di proprietà della cinese ByteDance, è finita sotto la lente del governo americano, che valuta se bandirla o obbligarla a un cambio di proprietà. Ma intanto proprio la piattaforma sta diventando un canale privilegiato per la promozione — e la vendita — di prodotti contraffatti.
In diversi video diventati virali, fabbriche cinesi mostrano catene di montaggio con borse di lusso, spacciandole per “vere” produzioni di marchi come Louis Vuitton o Hermès, e le vendono online a un terzo del prezzo. Questo tipo di contenuto, in un clima di tensione economica e identitaria, mina ulteriormente la fiducia dei consumatori e colpisce la narrazione stessa del lusso: esclusività, artigianato e trasparenza.
Secondo le autorità doganali statunitensi, nel solo 2023 sono stati sequestrati prodotti contraffatti per un valore di 1,8 miliardi di dollari. Le maison non stanno a guardare: Louis Vuitton ha ribadito che nessun prodotto ufficiale è realizzato in Cina, e Lululemon ha pubblicato l’elenco completo e trasparente dei propri fornitori.
Dazi, da emergenza a opportunità
La guerra commerciale in corso sta ridefinendo non solo le rotte della produzione globale, ma anche il concetto stesso di valore nella moda. Se da un lato le tariffe generano instabilità e rincari, dall’altro offrono l’opportunità di ricostruire un sistema più locale, sostenibile e autentico.
Il “Made in USA” non è più solo una dicitura nostalgica: diventa una strategia, una scelta valoriale e un punto di contatto diretto con il consumatore. E in un mondo sempre più incerto, il ritorno alla produzione locale potrebbe non essere solo una soluzione temporanea, ma l’inizio di un nuovo paradigma per l’intera industria della moda.
Foto: The New York Times | Retail Brew | Filson | Elle