Diciamo di odiarli, ma non riusciamo a smettere di guardarli. I programmi trash sono lo specchio più sincero e brutale della nostra società
Molte volte, facendo zapping in TV, finiamo sempre nello stesso tranello: i programmi trash. Li critichiamo, li snobbiamo, a volte li guardiamo di nascosto… eppure continuiamo a seguirli. Che sia l’amica che dice “solo la prima puntata, giuro” o il collega che finge casualità, questi show entrano nelle nostre case con la forza di un uragano pieno di drammi. E funzionano. Sono ovunque, diventano virali, e se non li vedi, sei fuori dal giro.
Ma cosa intendiamo davvero per “trash”? Parliamo di contenuti esagerati, sopra le righe, costruiti per intrattenere e scandalizzare. Litigi improvvisi, triangoli amorosi assurdi, situazioni al limite del surreale: ci tengono incollati allo schermo. Li guardiamo per criticare, giudicare e — anche se non lo ammettiamo — per sentirci migliori.
Il trash televisivo non è una novità, ma oggi ha assunto nuove forme: è diventato globale, social, virale. Da Too Hot to Handle a L’Amore è cieco, fino al nostro orgoglio (o imbarazzo) Italia Shore, queste produzioni parlano il linguaggio dei meme, delle gif, delle reaction. Il trash non è solo qualcosa che guardi: è qualcosa che vivi.
Nel contesto italiano, poi, il trash assume sfumature ancora più particolari. Programmi come Temptation Island o Grande Fratello sono diventati veri e propri riti pop. Non solo per ciò che mostrano, ma per come entrano nel nostro linguaggio quotidiano. Frasi assurde diventano tormentoni. Anche chi dice di non guardarli, in realtà ne conosce perfettamente i riferimenti. Il trash è ovunque, e più lo rinneghiamo, più trova il modo di farci compagnia.

Italia Shore: il teatro dell’assurdo
Tra tutti, Italia Shore merita una menzione speciale. Ispirato a Jersey Shore americano, questa versione tutta tricolore prende il concetto di “eccesso” e lo porta all’estremo abbracciando ogni cliché possibile: accenti marcati, litigi alcolici, muscoli in bella vista e relazioni che durano meno di una serata in discoteca. Il format è semplice: un gruppo di giovani viene chiuso in una casa sul mare per far festa, flirtare e litigare. Ogni episodio è un’esplosione di dramma, urla, tradimenti e confessionali che — per quanto prevedibili — riescono sempre a intrattenerci. Lo spettatore guarda, giudica… e poi torna, puntualmente, all’episodio successivo. Anzi la aspetta come si aspetta il pranzo della domenica.
Ma il vero punto interessante è che Italia Shore riesce a diventare uno specchio (anche se deformato) di certi aspetti della nostra società: l’esibizionismo social, l’ossessione per l’apparenza, la cultura del “faccio quello che voglio”, l’idea di amore come gioco, come sfida, come contenuto. Ed è proprio questa identificazione, anche indiretta, che ci tiene agganciati.
Nonostante e grazie alle critiche, Italia Shore ha trovato il suo pubblico. E questo ci porta alla domanda chiave: perché siamo così attratti da questi contenuti, anche quando sembrano tutto tranne che “di qualità”?

Perché ne siamo attratti?
La risposta breve è: perché sono irresistibili, coinvolgono quella parte infantile di noi che ci piace riportare a galla. Quella lunga, invece è che i programmi trash ci attraggono per diversi motivi, e nessuno di questi è davvero banale.
L’effetto “fuga dalla realtà”. Dopo una giornata pesante, cosa c’è di meglio di un’ora di caos emotivo altrui? Guardare qualcuno fare scelte discutibili, urlare per gelosia o buttarsi in relazioni lampo ci distrae dai nostri drammi quotidiani. È una forma di evasione, ma anche un modo, in modo paradossale, per sentirci più “normali”, più giusti.
Poi c’è la curiosità morbosa. Amiamo osservare gli altri, soprattutto quando mostrano lati che nella vita reale verrebbero censurati. I reality ci permettono di spiare comportamenti estremi senza filtri, offrendo il piacere del giudizio comodo: “Io non lo farei mai”, pensiamo, sentendoci superiori.
E poi c’è il fascino del disastro. Come un incidente in slow motion, non riusciamo a distogliere lo sguardo. Più la situazione è assurda, più ci appassiona. Aspettiamo il momento del crollo, lo scandalo, la nuova crisi. E tutto questo è tutt’altro che spontaneo.
Tutto per gli ascolti
Dietro ogni urlo, lacrima e colpo di scena c’è una macchina produttiva precisa, calibrata e chirurgica. Il trash non è spontaneità allo stato puro: è costruzione studiata nei minimi dettagli. I produttori di questi programmi sanno perfettamente come gestire il ritmo, scegliere i protagonisti giusti, creare dinamiche tossiche e mantenerci agganciati episodio dopo episodio.
Il montaggio è un’arma potentissima. Le inquadrature, i tagli, le musiche drammatiche: tutto è progettato per amplificare il pathos e portare lo spettatore a una reazione emotiva. Niente è lasciato al caso, nemmeno i momenti che sembrano “naturali”.
Anche il casting è strategico: ogni personaggio corrisponde a un archetipo – il bello e superficiale, la seduttrice, l’insicuro, il bullo, la vittima. Visti insieme, creano un ecosistema esplosivo perfetto per far scintille e ascolti. Il caos non solo è previsto: è programmato.
E quando questi contenuti arrivano online, diventano virali. Meme, clip, reaction: i social trasformano anche il momento più discutibile in un contenuto condivisibile. Il trash diventa cultura pop. E proprio qui risiede la sua forza.

Il trash come linguaggio popolare
Il trash oggi è un linguaggio comune, soprattutto per la Gen Z. Lo guardiamo da soli ma lo viviamo insieme: nei gruppi WhatsApp, nei duetti su TikTok, nei post ironici su Instagram. In un mondo che ci impone costantemente di essere performanti e impeccabili, il trash ci mostra l’opposto: l’imperfetto, il goffo, il disastroso. Ed è rassicurante.
Alla fine della fiera, forse la domanda giusta non è se questi programmi siano “spazzatura”, ma perché li guardiamo con così tanto piacere.
La risposta è semplice quanto scomoda: perché ci parlano, anche se non vogliamo ammetterlo. Ci mostrano l’esagerazione, il disordine, il bisogno disperato di essere visti e amati. Tutte cose che, in forme diverse, ci appartengono. In un certo senso, ci offrono un mix di divertimento, rassicurazione e distacco. Rappresentano tutto ciò che non vogliamo essere, ma che ci affascina. Ma soprattutto, ci danno la possibilità di osservare l’umano in versione estrema, senza rischiare nulla in prima persona
E in un mondo in cui tutto è costruito per sembrare autentico, forse proprio questi programmi — così evidentemente finti — ci sembrano, paradossalmente, più veri di tanto altro.
Forse non è alta cultura. Ma è cultura. E capire perché lo guardiamo può dirci molto su chi siamo – e su chi, in fondo, non vogliamo ammettere di essere.
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