Nel mese di giugno, poco prima della sua nomina all’organo di voto dei Golden Globe, ho avuto il piacere di entrare anch’io all’interno della cucina più famosa di TikTok. Quella della giornalista e content creator Eva Carducci.

Un esempio di come il cinema possa essere trasformato in uno storytelling basato sulla passione
Lei come sempre reduce da un’intervista, gentile e disponibile, mi ha raccontato della sua vita. Del suo lavoro, dei suoi rapporti con il pubblico social e con i suoi intervistati. Ma il modo migliore per raccontare Eva Carducci credo sia farlo con le sue parole, in prima persona.
Le video-interviste: tutto ebbe inizio dodici anni fa
Le video-interviste? Per me che sono timida all’inizio erano come l’esame peggiore: mettersi di fronte ad una videocamera è una sfida contro sé stessi. E contro me stessa. Ma in realtà fu un colpo di fortuna perché all’epoca, dodici anni fa, era l’unico modo per fare questo lavoro. Un po’ perché le video-interviste sono sempre state snobbate e nessuno voleva farle, c’è sempre prima la carta stampata.
Questa è una cosa cambiata in parte solo dal 2020. Io scrivo per il cartaceo ma solo di tanto in tanto. Non è qualcosa che potrei fare tutto il giorno, tutti i giorni, perché a me piace comunicare attraverso i video. Sono fortunata perché mi considerano ancora una bambina nelle redazioni e le interviste in video me le fanno ancora fare.
E anche per questo non ho mai voluto separare il mio lavoro da giornalista da quello della content creator. Si tratta esattamente della stessa cosa: fare lo stesso lavoro ma comunicarlo in maniera diversa, almeno nel mio caso.
Eva Carducci e il fenomeno TikTok
Ho trovato in TikTok una forma di comunicazione che mancava. Io lavoravo per la Fox prima che venisse acquisita dalla Disney e con la fusione mi dissero di conservare i video delle interviste, farci quello che volevo, perché altrimenti sarebbero andati persi. E alla fine, tra pubblicarli su Twitch o TikTok, optai per la seconda chiedendomi se la GenZ avrebbe accolto questa Millenial o mi avrebbero vista come il Sig. Burns dei Simpson. E da allora è una sensazione bellissima: persone genuinamente interessate che mi pongono anche domande bellissime. E sulla professione, non solo sugli attori. Quando un ragazzo mi chiede “cosa deve studiare” per fare il mio stesso mestiere io mi emoziono. Sai quanti coetanei partono dal presupposto che il mio lavoro sia facile?
E poi ho trovato un linguaggio diverso. Ad esempio io sui social non ho filtri, e mi piace anche che il mio accento romanesco si senta. Perché anche questo, parlando di forme di linguaggio, manifesta trasparenza. E il feedback che ottengo mi fa pensare di essere riuscita a fare quello che volevo nella vita. Ovvero di fare questo lavoro, che è il più bello del mondo, e di raccontarlo senza veli.
Il suo lavoro? “Il più bello del mondo”
La cosa strana di questo lavoro è realizzare che i film mi hanno sempre influenzata, sin dall’infanzia. E avere la possibilità di parlare con quei registi, con quegli interpreti, che quei film li hanno fatti è molto particolare. Ogni incontro racchiude sempre timori: quello di fare la domanda sbagliata, o di capitare nel momento sbagliato. Io fino a questo momento sono stata davvero fortunata. Erano due i personaggi che sognavo quando ho iniziato: Spielberg e Keanu Reeves. E di entrambi ho solo ricordi bellissimi.
Hook e Jurassic Park, di Spielberg, sono i film che mi hanno dato modo di avvicinarmi al cinema. Io amavo i dinosauri e quando ho capito che un film potesse ricreare qualcosa che nella realtà non esiste, è stata passione. Il cinema pop è quello che mi piace, quello che dà vita ai sogni. Anche se poi il cinema è molto altro ancora: politica, cronaca, attualità. Ma quello che mi ha sempre colpito è la magia dietro la creazione di un immaginario surreale.
È difficile individuare il titolo della mia infanzia.. Il film a cui mi sento più legata – era l’estate dei miei sette anni e mezzo – è sicuramente Hook. Lo guardavo tutti i pomeriggi. Spielberg è il regista che mi ha cambiato la vita e se oggi ho questo rapporto con il cinema lo devo anche a lui.
Quando ebbi l’opportunità di intervistarlo, sapendo che Hook è uno dei film che considera meno riusciti, ho colto l’occasione per condividere con lui l’importanza che avesse avuto per me quello stesso film di cui lui si dice insoddisfatto.
Spielberg è una persona umile, gentile. È il re di Hollywood eppure parla con l’entusiasmo di un bambino, sempre. Alla mia affermazione era genuinamente felice e mi disse: “se anche una sola persona è stata così ispirata da un mio film, creando un immaginario che poi è riuscito a portare avanti fino all’età adulta, significa che ho fatto il mio lavoro”. E quel momento di condivisione per me è stato davvero emozionante. Sì, mi sono commossa. Ma non mentre parlavo, per fortuna. Dopo…
Il cinema secondo Eva Carducci
Il cinema se dovessi definirlo ti direi che è passione. Quello che vedo facendo questo lavoro, parlando con le persone che il cinema lo fanno concretamente, avanti o dietro la telecamera, è che la cosa che ci unisce tutti è proprio la passione con cui facciamo il nostro mestiere. Prendiamo gli attori, a noi sembra che facciano delle vite fantastiche ma io non cambierei mai la mia con la loro. C’è tutto un mondo dietro quello che noi vediamo su schermi o tabloid. Dalla nostra parte del monitor sembra tutto bellissimo, ma è molto più dura di quello che sembra. Come ho detto, serve passione.
E poi le sensazioni legate all’esperienza che si vive ogni volta in sala e in qualche modo ci si immerge nelle emozioni di qualcuno altro… Lasciarsi trasportare credo che sia una cosa che unisce chiunque. Il cinema non è divisivo. E questa è un’altra cosa che apprezzo. A persone diverse possono piacere film diversi, ma il cinema sarà sempre qualcosa che unisce.
Ma dove è iniziato tutto?
Io sono stata fortunata, il punto in cui sono oggi lo devo ad un colpo di fulmine. Da ragazzina volevo studiare astrofisica e in quinto liceo ebbi la fortuna di incontrare Margherita Hack. Venne nel mio liceo per presentare il libro che aveva appena scritto e tra tanti appena diciottenni penso che fossi l’unica entusiasta della cosa. Così, finita la conferenza, mi avvicinai per parlarle, per chiederle dei consigli. E lei mi rispose “Stellina mia, se vuoi fare questo lavoro devi andare subito negli Stati Uniti”.
Io non me la sentivo di fare questo salto, c’erano anche altre cose nella mia vita così ho rivoluzionato i miei piani e seguito quella che è sempre stata la mia passione. Io facevo lo scientifico, ma per quanto i miei voti potessero essere buoni, non ero portata per le materie d’indirizzo. Quelle umanistiche erano davvero nelle mie corde. Così mi iscrissi a scienze della comunicazione a Tor Vergata, la facoltà che sentivo più affine a me. Diedi anche tanti esami di filosofia. All’epoca mi chiedevo tutte quelle nozioni a cosa sarebbero mai servite ma in realtà mi è tornato tutto dopo. È una scienza che ti apre la mente. E ancora oggi, ogni volta che faccio un’intervista, ritrovo sempre collegamenti con la filosofia.
Io poi mi laureai in Comunicazione Multimediale. Ci fu una lezione in particolare che cambiò il mio modo di vedere le cose. Venne riportata in aula una spiegazione di Moulin Rouge, film all’epoca uscito da un paio d’anni al cinema. Ma sopratutto un film che io odiavo, perché non lo capivo. Quando mi spiegarono dei collegamenti al pre-cinema, il perché dei giochi con il blu e il rosso di Baz Lurhmann. Io rimasi a bocca aperta e pensai che non volevo fare altro nella vita. E oggi provo a fare la stessa cosa nel mio lavoro, ovvero raccontare il cinema alle persone in modo che possano comprendere quello che altrimenti non capirebbero.
Piccoli consigli (da chi ne sa una in più)
Se dovessi farti il titolo di un film che secondo me è sottovalutato, o meglio: letto generalmente nel modo sbagliato, quello sarebbe Matrix. Il primo. Quel film è talmente filosofico, talmente profondo, che ogni volta che lo si riguarda può offrirti delle chiavi di lettura diverse. Se si pensa a Matrix si pensa innanzitutto agli effetti speciali, invece dei quattro è il più distopico. È quello che porta all’esasperazione il racconto di dinamiche che viviamo quotidianamente. È lo specchio della nostra società. Si guarda troppo l’aspetto tecnico e troppo poco quello filosofico. Gira tutto intorno alle sue chiavi di lettura.
E il quarto è direttamente collegato al primo. È stata fatta una transizione importante da Lana e Lilly Wachowski – le registe, che all’epoca del primo film ancora non avevano cambiato sesso. Hanno fatto quello che vent’anni fa non potevano fare, ovvero dire che Trinity era la co-protagonista e che era l’eletta, esattamente quanto Neo. E questo, in una società più patriarcale e con dei film del genere, non potevano farlo.

Adesso invece, per amore personale, non vedo l’ora di vedere la prossima – e ultima – stagione di Stranger Things. Sono davvero curiosa di sapere come chiuderanno questo fenomeno che al suo inizio gli scoppiò in mano contro le aspettative di tutti.
E poi voglio vedere Joker! Ho amato il primo e lo aspetto tanto perché non so se retrocederà rispetto alla battaglia fatta in quanto cinecomics. Cioè vincere un festival come quello di Venezia che è il più antico al mondo. Ma per me già solo che si stia parlando di un musical con quindici canzoni cantate da Lady Gaga dovrebbe fargli vincere tutto (se va a Venezia). E sono curiosa di vedere cosa ne penserà il pubblico.
Lo scorso anno invece ero davvero curiosa di vedere Barbie… E poi è arrivato Poor Things. La cosa migliore è che i film più belli arrivano quando meno te lo aspetti.
Bisogna arrivare dritti al cuore delle persone, e io raccontando il cinema provo a fare quello. Anche con la mia goffaggine. E provando a divertirmi.