Intervista a Marylin Fitoussi, costume designer di Emily in Paris. La fortunata serie Tv trasmessa da Netflix che racconta le avventure di una ragazza di Chicago trasferitasi a Parigi per lavoro. E che attraverso il suo canale Instagram finisce per farsi conoscere dai più grandi marchi francesi.
“Scusate se oggi non parlerò italiano, vi prometto che la prossima volta lo imparerò!” è con questa frase che potremmo riassumere la personalità di Marylin Fitoussi, costume designer di Emily in Paris incontrata in occasione dell’evento “The dark candy”. Marilyn incontra selezionati designer emergenti italiani i cui capi potranno essere scelti per la quarta stagione della produzione Netflix.
Ciao Marylin e benvenuta a Milano!
“Ciao a tutti! grazie mille, scusate se oggi parlerò sono nella mia lingua”
Marylin per quale motivo, secondo la tua esperienza, oggi i costumi hanno guadagnato un’importanza sempre maggiore nelle produzioni televisive e cinematografiche?
“Devo ammettere che per me e i miei colleghi tutto ciò è molto strano. Pensare che uno dei focus point di una serie siano i costumi, come è per Emily in Paris, ma anche per Euforia o Mercoledì è qualcosa di nuovo. Non esiste una risposta esatta a questa domanda. Mi viene da pensare che forse la chiave di tutto questo successo sia la libertà. Io, rispetto ad un magazine o ad un designer, sono totalmente libera nel creare e mixare; non devo pensare alle vendite o stare al passo con i ritmi folli della moda contemporanea”.
Spesso si pensa che il costume designer scelga semplicemente i vestiti per gli attori, ma in realtà è molto di più, facciamo un po’ di chiarezza sul tuo ruolo, spesso confuso con quello dei designer e degli stylist…
“Il mio lavoro è molto più complesso della sola scelta degli outfit per una produzione. Io concorro alla creazione e alla resa del personaggio. Con gli abiti accompagno l’attore in un cammino molto lungo che lo porta ad estraniarsi dalla sua persona per entrare in sintonia con chi dovrà interpretare. Dico sempre che il mio lavoro è 80% psicologia e 20% creatività!”
Come avviene questo processo, come si passa dalla sceneggiatura alla caratterizzazione del personaggio?
“Si tratta di un percorso molto lungo. Un lavoro di squadra: devo mixare la mia visione con quella dell’attore e con la sceneggiatura; alle volte è semplice ed immediato altre volte più delicato. Il segreto è avere un bel rapporto con tutti i colleghi ed in particolare con l’attore che ha il potere di dire sì o no! É un lavoro di sperimentazione; il mio motto infatti è Let’s go to the lab!”.

Cosa ti ispira nella creazione di un personaggio?
“Praticamente tutto, prima di cominciare il processo creativo di solito mi siedo in un bar e guardo le persone che camminano cercando di immaginare le loro storie. Presto anche molta attenzione ai materiali. Io nasco come textile designer, le tinte unite mi mettono i brividi per questo mixo tante stampe. Non nascondo che spesso sono stata anche tacciata di cattivo gusto!”.
Cosa intendi per buono e cattivo gusto?
“Odio queste distinzioni così nette. Non sono troppo convinta esistano un buono ed un cattivo gusto, ma se devo scegliere preferisco, senza dubbio, il secondo. Come diceva Diana Vreeland: Abbiamo tutti bisogno di un bagno nel cattivo gusto. Non credo nella moda ci sia un giusto o sbagliato. La vita è troppo corta per indossare abiti noiosi: se hai voglia di portare le paillettes alle 10 del mattino fallo e basta!”.
Immagino che il set sia un luogo molto frenetico, hai qualche aneddoto da raccontarci?
“Ne avrei mille! Una delle esperienze più stimolanti è stato lavorare sul set di Taken 3. Quando si tratta di un action movie le variabili da tenere sotto controllo sono moltissime. In quel caso uno dei problemi principali erano i tessuti che disturbavano il microfono. In sala di registrazione lavoravo con un ingegnere: per scegliere una semplice cravatta ne acquistammo 15, ognuna di un tessuto diverso. Facemmo per ciascuna una prova microfono e poi scegliemmo quella che dava meno problemi all’audio”.
Da questo racconto deduco che un costume designer debba avere molte competenze che anche esulano dalla moda…
“Assolutamente sì! Essere un costume designer significa avere competenze molto trasversali. Bisogna conoscere tutto ciò che concerne la produzione: luci, telecamere e via dicendo. Anche perché non sempre ci si trova a dover vestire la it-girl, è necessario pensare anche ai look del taxista o della casalinga. Si tratta di un lungo labor limae, una ricerca costante del dettaglio. Il giusto costume non deve aver bisogno di sottotitoli”.
Venendo all’esperienza di Emily in Paris; spesso utilizzi capi vintage, qual’è il tuo rapporto con il mondo second hand?
“Adoro il vintage! Da sempre fa parte di me; fin da ragazzina ne faccio uso. In Emily in Paris mi piace mixare capi vintage con le creazioni di giovani talenti o di affermati designer e anche, talvolta, con il fast fashion. Lo so, tutti siamo contro il fast fashion, anche io, ma non possiamo negare che faccia parte delle nostre vite”.
Quale è stato il personaggio più complesso da rappresentare?
“Più che complesso direi delicato! Non ho dubbi: Gabriel! La cosa più dura è stata trovare il giusto equilibrio: doveva essere il ragazzo della porta accanto, ma con quel tocco in più! Attraverso look piuttosto minimal ho dovuto comunicare la sua storia e la sua visione. E qui sono stati i dettagli e i colori il mio asso nella manica”.
Emily in Paris è quasi un fashion magazine oggi, immagino sia diverso lavorare come costume designer per una produzione come questa…
“Certamente! Emily in Paris è una serie con un taglio fashion. I costumi hanno una risonanza mediatica molto elevata. Motivo per il quale mi sono posta una mission: donare visibilità ai giovani designer cercando di dargli un’opportunità. Ecco perché sono qui oggi!”.
Tornando a te Marylin: cosa ti aspetti per il futuro?
“Spero solo di non perdere mai la passione e l’entusiasmo che ho per questo lavoro che ormai faccio da 22 anni. Voglio che la mia esperienza possa essere utile alle nuove generazioni con cui spero di avere continuamente possibilità di confrontarmi. E poi sono sempre pronta per nuove sfide”.
Con quali nuove sfide vorresti misurarti?
“Mi piacerebbe lavorare ad un film in bianco e nero, cosa che non faccio da un po’. É un’esperienza molto stimolante: per una produzione del genere devi lavorare sui contrasti e non hai l’ausilio dei colori. Si tratta di un lavoro molto complesso, ma proprio per questo vorrei farlo. Ovunque ci sia qualcosa di difficile c’è anche qualcosa da imparare. E poi, senza dubbio, vorrei occuparmi di un musical. Paillettes, piume…adoro! Pensate che la mia passione per la moda nasce dal mondo del Moulin Rouge”.
Un’ultima curiosità: tutti gli abiti utilizzati nelle produzioni dopo le registrazioni dove finiscono?
“Vanno in paradiso! A parte gli scherzi, in realtà non lo so nemmeno io! Alcuni tornano alle case di moda mentre quelli acquistati, nel caso di Emily in Paris, vengono portati in un luogo segreto a Parigi. Io non so dove sia né tantomeno ho le chiavi per entrarci! Non so di preciso per cosa verranno usati, penso per delle mostre. Ora 10 look di Emily sono in esposizione a Los Angeles e concorrono per gli Emmy Awards”.
Ecco concluso il ritratto di Marylin Fitoussi, costume designer di Emily in Paris. Il racconto di una donna straordinaria le cui caratteristiche più interessanti iniziano per u: umanità e umiltà.



foto: marylinfitoussi.com