Le vere “Fashion Victims” e gli strumenti offerti da Fashion Revolution

da | FASHION

Lo scorso 23 aprile, Fashion Revolution e Fashion Film Festival Milano hanno portato nel capoluogo meneghino “Fashion Victims”, importante docu-film di Chiara Ka’Hue Cattaneo e Alessandro Brasile.

Il documentario è ambientato nel Tamil Nadu, ovvero uno dei 29 stati che compongono l’India: questo stato si trova nel sud del Paese e qui milioni di adolescenti e di giovani donne lavorano nell’industria tessile, dalla filatura alla tessitura del cotone fino alla confezione di capi di abbigliamento, per il mercato locale e internazionale.

Adolescenti e giovani donne provengono spesso da zone povere e rurali dove scarseggiano fonti di reddito alternative o sufficienti per loro e per le loro famiglie, anche a causa del persistente declino dell’agricoltura: è in questi villaggi che i cosiddetti “intermediari” agiscono tra le aziende (alla ricerca di una manodopera numerosa e docile) e una popolazione locale sempre più disperata, reclutando ogni anno migliaia di ragazze.

Le ragazze vengono portate nelle aziende dove, oltre a lavorare, sono costrette anche a vivere negli ostelli o dormitori annessi alle fabbriche: tutto ciò prende il nome di “Sumangali scheme”.

Secondo questo “schema”, le ragazze devono lavorare da tre a cinque anni, con turni estenuanti che arrivano anche a venti ore al giorno e in condizioni pericolose; sono private della libertà di movimento e di comunicazione con il mondo esterno e non ricevono uno stipendio mensile, ma solo una modesta somma di denaro per le esigenze quotidiane. Al termine del periodo stabilito, dovrebbero ricevere il pagamento cumulativo di quanto hanno guadagnato nel corso degli anni, una somma che equivale a circa cinquecento – ottocento euro.

Il termine Sumangali significa “donna sposata” oppure, in lingua Tamil, “donna felicemente sposata”: il denaro guadagnato serve a questo, poiché le ragazze sognano di poter usare quel denaro come dote per il proprio matrimonio.

Già nel 1961, l’India ha emanato il Dowry Prohibition Act, una legge che vieta di dare o accettare la dote (dowry in inglese), ovvero contanti, gioielli, elettrodomestici, mobili, biancheria, stoviglie, utensili e altri oggetti conferiti dai genitori della sposa: sebbene da parecchi decenni l’India abbia approvato la legge, la pratica – illegale – è tuttora molto diffusa.

Ciò che accade attraverso il “Sumangali scheme” è ben diverso dalla promessa con la quale vengono attratte le ragazze: la realtà è fatta di ambienti non sicuri, mancanza di qualsiasi tutela, condizioni disumane, pressione psicologica, incidenti sul lavoro, mancati pagamenti fino ad arrivare agli estremi, ovvero violenza sessuale, tentativi di fuga, suicidi e omicidi fatti poi magari passare per suicidi.

Grazie al documentario “Fashion Victims” sono le ragazze stesse a tracciare il quadro della crudeltà quotidiana di un sistema produttivo nel quale le vere fashion victim – le vittime della moda sono proprio loro, violate in vario modo e private dei loro sogni.

Alessandro Brasile e Chiara K. Cattaneo, i due autori di “Fashion Victims”, si sono entrambi ritrovati a lavorare sulla filiera tessile indiana: lui, fotografo, aveva scattato alcuni servizi insieme a delle ONG locali, mentre lei si occupa da dieci anni di cooperazione.

Sono state proprio le ONG a chiedere loro di far conoscere questa storia di cui si sa poco.

I sistemi di certificazione che dovrebbero garantire la legalità della filiera e dei processi produttivi si concentrano, in realtà, nella fase iniziale (la coltivazione) o finale (il confezionamento), ovvero le fasi più tracciabili, mentre quello della filatura è un segmento complesso dal punto di vista logistico, difficile da tracciare: è quello a cui si sono interessati Alessandro e Chiara.

«Essendo un segmento inesplorato – raccontano – è come se ci fosse mano libera per uno sfruttamento che, anche se non a livello giuridico, rasenta condizioni di schiavitù.»

Le ragazze raccontano le loro esperienze con grande dignità, pudore e compostezza: ciò crea uno stridente contrasto con l’orrore di quanto raccontano, il peso di un destino che considerano ineluttabile e che per molte di loro è, in effetti, tale.

Le “Fashion Victims” del Tamil Nadu sono adolescenti: hanno un’età in cui in Italia e in gran parte dell’Occidente si va a scuola e la loro sventura è quella di essere nate nel “luogo sbagliato”, così come accadde a tutte le persone che perirono nella tragedia del Rana Plaza.

Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza, edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh.

Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero con un bilancio dolorosissimo: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti per quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile.

Com’è tragicamente noto, il Rana Plaza ospitava infatti alcune fabbriche di abbigliamento oltre a una banca, appartamenti e numerosi negozi: nel momento in cui furono notate delle crepe, i negozi e la banca furono chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili.

Ai lavoratori venne addirittura ordinato di tornare il giorno successivo, quello in cui l’edificio ha ceduto collassando.

Le fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza lavoravano anche per i grandi committenti internazionali e questo orribile sacrificio di vite umane ha squarciato il velo di omertà che copriva, a mala pena, pratiche che moltissimi, in realtà, conoscevano da tempo e fingevano di non vedere.

Fashion Revolution, l’organizzazione che ha promosso la proiezione del documentario “Fashion Victims”, è un movimento presente in 102 Paesi nel mondo ed è stato fondato da Carry Somers e Orsola de Castro nel 2013, proprio dopo la tragedia del Rana Plaza.

Conduce una costante campagna di sensibilizzazione rivolta soprattutto al consumatore finale: promossa attraverso stampa e social media, prevede eventi che siano mirati a promuovere il concetto di moda etica e di sostenibilità.

Questa campagna di sensibilizzazione è oggi necessaria se si pensa alle ragazze del Tamil Nadu e alle vittime del Rana Plaza e anche ai risultati di vari studi, per esempio quello realizzato nel 2018 da Movinga e che riporta come, In Italia, i vestiti che abbiamo nell’armadio non vengano spesso usati: si parla di una percentuale altissima che tocca l’80%.

È uno dei dati che emerge da uno studio su 20 Paesi (realizzato appunto dalla piattaforma online tedesca specializzata in traslochi) e che conferma una triste realtà, una delle grandi contraddizioni della nostra epoca: l’accumulo esagerato che si traduce in spreco, con tutto quello che ne consegue in termini di danno per l’ambiente e sfruttamento umano.

Anche perché l’Italia non è naturalmente da sola: negli USA, sempre secondo lo stesso studio, la percentuale di mancato utilizzo raggiunge l’82% e in Belgio addirittura l’88%.

È evidente come nell’attuale sistema moda – e più in generale in quello dei consumi – esista una questione aperta della quale tutti noi dobbiamo farci carico.

Oltre a promuovere eventi come la Fashion Revolution Week durante la quale possiamo rivolgerci ai brand chiedendo la provenienza di ciò che indossiamo attraverso l’hashtag #whomademyclothes, l’organizzazione di Carry e Orsola mette al servizio di tutti importanti strumenti quali il Fashion Transparency Index.

Il 24 aprile è stata pubblicata l’edizione 2019 di questo studio che, ogni anno, analizza e classifica 200 marchi di moda in base al grado di trasparenza a proposito delle politiche sociali e ambientali.

Attraverso cinque macro-categorie (policy & commitments; governance; traceability; know, show, fix; spotlight issue), Fashion Revolution ha stabilito che nessun brand è in grado di superare il 65% del punteggio.

I marchi più trasparenti sono Adidas, Reebok e Patagonia a quota 64%; seguono Esprit a quota 62% e H&M a quota 61%; tra le griffe al di sotto del 5% figurano purtroppo anche alcuni nomi italiani celebri.

Leggere tutto lo studio è interessante e fortemente consigliato: prima di lasciare il link diretto per accedervi, desidero concludere con una riflessione e un invito.

La riflessione è a proposito della locuzione fashion victim, usata talvolta – erroneamente! – per definire chi è appassionato di moda.

Fu Oscar de la Renta, celebre designer di origine dominicana, a coniare la definizione e lo fece per descrivere quelle persone prive di senso critico nell’ambito delle mode in generale e, più specificatamente, nell’abbigliamento; persone insicure che acquistano capi e accessori per sentirsi accettate e integrate nella società.

Tale fenomeno esiste naturalmente da molto tempo prima che nascesse la locuzione coniata negli Anni Ottanta dall’indimenticabile de La Renta: capita che alcune persone (donne e uomini, giovani e meno giovani) si descrivano proprio così nei loro profili social, da Facebook a Instagram, non realizzando quanto fashion victim abbia un’accezione negativa.

È sicuramente un malinteso: sono certa che nessuno desideri essere “vittima”, ovvero soggetto passivo degli interessi di una certa industria della moda.

Le vere “Fashion Victims” sono, purtroppo e loro malgrado, le ragazze raccontate da Chiara K. Cattaneo e Alessandro Brasile nel loro documentario, vere vittime e nuove schiave di un sistema moda che va cambiato.

E sta a noi fare la nostra parte.

Come? Qual è dunque l’invito?

Quello è essere persone interessate e informate, attive e non passive, che tengono gli occhi aperti, che agiscono (nel caso degli studenti di Accademia anche in qualità di futuri professionisti del settore) e che fanno sentire la loro voce; persone che non si fermano alla superficie e che approfittano degli strumenti che organizzazioni come Fashion Revolution mettono a disposizione.

Tali strumenti dimostrano purtroppo che c’è ancora tanto da fare.

E se le ragazze del Tamil Nadu hanno un destino che a loro appare ineluttabile, noi possiamo invece fare qualcosa affinché non sia più così.

Emanuela Pirré
Docente Accademia Del Lusso

Per chi vuole agire:

Il sito di Fashion Revolution

Il sito collegato al documentario “Fashion Victims”

Il Fashion Transparency Index 2019 di Fashion Revolution

Nei siti di Fashion Revolution e “Fashion Victims” sono menzionati tutti i canali social costantemente attivi.

Tutte le immagini (foto e frame del film) sono materiale di © Alessandro Brasile.

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