Avere una storia importante: nella moda e nel lusso, oggi, è ancora considerato un valore aggiunto e un vantaggio?
Oppure, a volte, tutto ciò si trasforma piuttosto in un bagaglio considerato troppo ingombrante?
In realtà, non esiste una risposta univoca a tali quesiti e assistiamo a una frammentazione del panorama.
Da una parte, troviamo brand che scelgono la strada della valorizzazione della propria storia e del proprio archivio secondo il principio della linearità e della continuità: tradizione, eredità, patrimonio culturale – o heritage – vengono attualizzati e fatti rivivere. Si guarda avanti, insomma, ma con un occhio al passato.
La moda è per sua stessa natura in costante evoluzione: il gusto cambia e deve aggiornarsi, eppure questo non comporta necessariamente che il lavoro svolto sia dimenticato.
Studi preparatori, schizzi, bozzetti, ricerche di materiali, schede tecniche, moodboard, campionari, prototipi, advertising: ciò che ruota attorno a produzione e vendita è sempre stato conservato e organizzato da tutti i brand di moda e, solo così, è in grado di raccontare una storia.
Nel tempo, fondazioni, archivi, associazioni, enti e musei – pubblici, privati e d’impresa – si sono posti l’obiettivo di tenere memoria della storia del costume e della moda.
La fondazione, creata da persone fisiche o giuridiche, persegue uno scopo di utilità generale, senza fini di lucro: tra gli esempi più conosciuti si possono citare la Fondazione Gianfranco Ferré di Milano e la Fondazione Ferragamo di Firenze.
Altre volte le maison costituiscono invece archivi o musei d’impresa: la qualifica “d’impresa” sottolinea la natura economica dell’attività, dunque tali archivi devono produrre vantaggi, per esempio lo sfruttamento dell’archivio stesso in termini di consultabilità.
Gli archivi hanno ricadute sul marchio: spesso danno infatti vita a campagne pubblicitarie di rievocazione storica o a collezioni heritage che riproducono o reinterpretano prodotti del passato, magari attraverso il recupero di pezzi d’archivio rappresentativi, più o meno recenti, e che hanno avuto grande successo già in passato.
Esempi recenti sono la Baguette di Fendi, la Saddle Bag di Dior e la Tribute Collection di Versace.
Il patrimonio culturale è dunque un elemento importante nell’ambito del lusso e della moda; eppure, in un mondo in cui la novità conta più che mai, nomi di successo come Gucci stanno adottando un approccio più flessibile – e non necessariamente lineare – al DNA del marchio.
Infatti, proprio sul discorso degli archivi e dei musei d’impresa, si innesta il caso Gucci che apre la strada ad altri scenari possibili.
Negli ultimi tre anni, il marchio fiorentino ha rappresentato senza dubbio il caso più eclatante di cambiamento stilistico e riposizionamento del marchio grazie alla dirompente visione di Alessandro Michele, nuovo Direttore Creativo, e anche grazie a un rinnovamento profondo di tutti i punti di contatto tra il marchio e i clienti tra il quali il nuovo store concept, le nuove vetrine, le nuove campagne pubblicitarie, il nuovo sito.
Nel 2011, anche Gucci aveva aperto il proprio Museo scegliendo l’antico Palazzo della Mercanzia a Firenze, ma Michele ha ripreso il concetto del museo convenzionale per ribaltarlo, reinventandolo come spazio nel quale esprimere l’estetica oggi in perenne evoluzione della maison.
Esattamente un anno fa, il 9 gennaio 2018, è stato così inaugurato il nuovo Gucci Garden: anziché esporre una collezione permanente di pezzi storici, il Garden prevede un mix fatto di articoli tratti dalle collezioni fino ad arrivare alle origini (1921), di memorabilia e anche di oggetti recenti e di arte contemporanea.
Gucci Garden non è – o non è esclusivamente – la celebrazione di un ricco archivio storico, bensì un’esperienza dinamica e interattiva; si può affermare che l’arrivo di Alessandro Michele abbia dato il via a un nuovo approccio dei marchi moda verso il proprio bagaglio di eredità culturale.
Fino a pochi anni fa, infatti, si privilegiava spesso quel principio di continuità e linearità della maison e, per quanto innovativo, ogni cambio di designer doveva fare i conti con l’heritage della griffe.
In qualche modo, il designer doveva adeguarsi a ciò che essa rappresentava prima di lui e che avrebbe continuato a rappresentare dopo: questo equilibrio, oggi, sembra però essere saltato e, spesso, l’ingresso di un nuovo direttore creativo non influenza solo le dinamiche stilistiche, ma comporta un rebranding o brand rebirth generale e talvolta anche molto profondo.
Dopo Alessandro Michele, altri esempi lampanti sono quelli di Riccardo Tisci in Burberry e di Hedi Slimane in Celine.
Oltre appunto alle evoluzioni stilistiche delle collezioni, Tisci e Slimane hanno dato chiari messaggi di azzeramento o quasi di ciò che li aveva preceduti e lo hanno fatto già prima di mandare le collezioni in passerella, attraverso evidenti variazioni di posizionamento e anche grazie alle campagne sui social network.
Hedi Slimane ha messo mano al logo e sono scomparse tutte le immagini legate all’era Phoebe Philo, precedente designer, dall’account Instagram e dal sito: l’accento che prima si trovava nel nome Céline è scomparso con l’intento, è stato detto, di proporre una «proporzione semplificata e più bilanciata».
Anche Riccardo Tisci ha lanciato un nuovo logo per Burberry: un inedito monogramma ha ricoperto alcuni negozi del brand e ha tappezzato perfino qualche autobus in giro per il mondo, il tutto – naturalmente! – immortalato e condiviso tramite gli account social.
La frenesia del cambio di logo non risparmia nemmeno il cosiddetto fast fashion, come nel caso di Zara che ha da poco scelto di introdurre un nuovo logo e si tratta addirittura del secondo cambio dopo quello del 2010.
Il rebranding (noto anche come processo di rivitalizzazione del marchio) è un fenomeno naturalmente frequente nel caso di griffe che sono soggette a cambi di proprietà e rientra generalmente in una nuova strategia di marketing: può essere parziale con piccole modifiche volte a migliorare la percezione del marchio oppure più impattante con un cambiamento di segni distintivi quali il logo o addirittura il nome e, conseguentemente, la gestione dell’immagine.
Ma, in questo scenario e alla luce del nuovo approccio di rebranding e brand rebirth più o meno totalizzanti, appare un grosso interrogativo: è quello di Versace ed è legato proprio a un cambio di proprietà.
Com’è noto, la maison della Medusa è recentemente passata al gruppo che fa capo allo stilista statunitense Michael Kors, tuttavia pare che vi siano difficoltà nell’applicare la strategia dell’azzeramento: a riprova di ciò, appena annunciata l’operazione, Kors ha confermato in toto la guida manageriale e stilistica attuale, con la direzione creativa che pare essere più che mai saldamente nelle mani di Donatella Versace, sorella dell’indimenticato e indimenticabile Gianni.
E nella scia di heritage e valorizzazione di archivio, si inserisce anche il filone delle monografie dedicate a stilisti e brand, volumi editi da prestigiose case editrici e redatte dai più stimati studiosi ed esperti di settore, volumi che sono diventati a loro volta oggetti di culto non solo per gli amanti della moda e della storia del costume, ma anche per tutti gli appassionati e i cultori del bello.
Tra le novità in tale ambito, va segnalata un’elegante monografia illustrata che è uscita a gennaio e che racconta l’evoluzione del brand Colmar, inquadrandosi alla perfezione in un discorso di valorizzazione del patrimonio culturale.
Edito da Rizzoli e disponibile in italiano e in inglese, il volume Colmar – Sport in Style racconta infatti come lo sport abbia influenzato la moda ripercorrendo negli anni lo stile e l’estetica di Colmar, brand quasi centenario che ha saputo dettare e interpretare le tendenze nel tempo.
Sono oltre 180 gli scatti accuratamente selezionati che dialogano tra loro tra presente e passato, storiche produzioni all’avanguardia e scatti contemporanei e vivaci, rivelando nel tempo uno stile dalla forte identità.
Il libro fa dunque un’operazione importante: costruisce un percorso visivo che mostra quanto un archivio storico possa risultare attuale e Colmar è perfetta per dimostrare ciò.
Fondata a Monza nel 1923 da Mario Colombo, Colmar ha prodotto dapprima cappelli e ghette in feltro di lana per poi dedicarsi alla produzione di abiti da lavoro: nell’immediato dopoguerra, con la ripresa e lo sviluppo dello sport, ha iniziato a specializzarsi nell’abbigliamento sportivo con particolare attenzione a quello da sci.
Lavorando in stretta collaborazione con la Federazione Italiana Sport Invernali, Colmar ha acquistato notorietà come produttrice di indumenti altamente tecnici e qualificati: in occasione delle Olimpiadi del 1952, ha avuto l’incarico di vestire la squadra italiana di sci e, insieme al celebre Zeno Colò, ha realizzato la prima giacca a vento aerodinamica chiamata guaina Colò.
Negli Anni Settanta, quelli della cosiddetta Valanga Azzurra, Colmar ha realizzato diverse tenute da gara che hanno fatto la storia dello sci e che hanno vestito i fuoriclasse italiani in occasioni di gare mondiali e olimpiche.
Oggi Colmar ha diversificato la sua produzione: oltre all’abbigliamento tecnico, realizza capi per uso quotidiano e dall’appeal urbano attraverso la linea Comar Originals.
Il libro è interessante proprio anche sotto questo aspetto che si inserisce ancora una volta in quell’ottica di costante evoluzione che caratterizza moda e costume; Sport in Style dimostra, infatti, come moda e sport, due universi antitetici sulla carta, siano invece diventati nel tempo alleati quasi inseparabili, tanto che oggi lo stile sporty spopola sulle passerelle, tra le celebrità e nel quotidiano.
Espressioni come sportswear e activewear sono ormai di uso comune e capi e accessori una volta destinati all’attività fisica sono ampiamente e universalmente sdoganati, indossati trasversalmente da persone di ogni età, ceto, occupazione: un esempio tra tutti è quello delle sneaker, come ha ben raccontato in un altro articolo Alice Tresoldi, studentessa di Accademia del Lusso.
Concludendo questo lungo viaggio, si può affermare che la moda inventa e rompe gli schemi, ma poi ritorna alle origini per trarre nuovi spunti e reinventarsi: per questo, la sfida tra heritage e rebranding è solo agli inizi.
Emanuela Pirré
Docente Accademia del Lusso
Si ringrazia l’Ufficio Stampa Mondadori Electa/Rizzoli Illustrati per la foto della copertina del libro Colmar – Sport in Style.